"PICCOLA OPERA REGINA APOSTOLORUM"

n. 2 - aprile 2005

SOMMARIO

Presentazione

Marcello Brunini - L’Eucaristia apertura degli occhi -

Giovanni Margarino - Signore che il gallo canti...

P. Carlo Fadin - Cristo “medico”

Preghiera - Abbandonarsi in te

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Presentazione

 Cari Lettori,

eccoci al consueto numero del nostro periodico dedicato principalmente ai Sacerdoti, in questo Giovedì Santo.
Chiaramente ognuno può cogliere spunti per la propria riflessione e per il proprio cammino di fede.
A noi della PORA preme che ognuno possa amare di più il Sacerdozio di Gesù presente nei Suoi Sacerdoti che, quotidianamente ci spezzano il Pane della Parola e del Corpo del Signore. Ed è per questo che vi proponiamo letture che sempre richiamano a queste realtà del Dono di Dio.
A tutti voi auguriamo una Santa Pasqua!
E che la celebrazione di questo Giovedì Santo possa essere, per ciascun Sacerdote, il ritornare alle radici della propria chiamata, là, nel Cuore di Cristo, nel Suo Amore appassionato e profondo che ci invia e che non ci abbandona!

Con questa intenzione vi ricordiamo

 Suor Maria Giuseppina

 

Per meditare
 

L’Eucaristia
apertura degli occhi, luce della comunità,
forza per il mondo
(Lc 24,13-35 – Atti 20,7-12 – Atti 27,33-44)

 di don Marcello Brunini

 I. Gesù spezza e dà il pane – e si aprirono i loro occhi  (Luca 24,13-35)

 

Indicazioni per la lettura

Il Cristo risorto – ma da straniero – si accosta e cammina con due discepoli in viaggio verso Emmaus. Quando sta per lasciarli, i due lo “pregano” di accettare l’ospitalità per la notte. Questi discepoli tristi sono condotti alla graduale “apertura” della Parola, ma anche ad accogliere una nuova presenza (vv. 28-29). Le parole ed i gesti di Gesù a tavola – “prese” il pane; “disse la benedizione”; lo “spezzò”; lo “diede” loro (v. 30) – rimandano certamente all’istituzione dell’Eucaristia, ma evocano pure altri “pani”: il pane delle tentazioni del deserto che l’uomo non può darsi da sé (Lc 4,3); il pane del Padre nostro che è necessario domandare con insistenza (Lc 11,3-8); il pane moltiplicato da Gesù in maniera sovrabbondante (Lc 9,16-17). Di fronte ai gesti e alle parole dello sconosciuto, gli occhi dei discepoli si aprono e riconoscono, in lui, il Vivente, che, in quello stesso momento, scompare nuovamente.
La presenza del Risorto non è più quella di un personaggio che prende posto a tavola, ma quella di chi passa nella vita dei discepoli e si fa vivo nel loro cuore nel segno del pane spezzato e nell’intreccio della loro vita quotidiana. L’ascolto della Parola e lo spezzare il pane pongono in comunione con la persona di Gesù, con cui i discepoli sono in comunione di vita e di destino. Luca presenta una unità inscindibile tra la Parola e l’Eucaristia: l’una fa «ardere il cuore», l’altra «apre gli occhi» all’esperienza del Risorto.
Il ritorno gioioso a Gerusalemme nella cerchia dei discepoli diventa conferma dell’esperienza del Risorto, che si traduce nella prima professione di fede: «Il Signore è veramente risorto ed è apparso a Simone».

Indicazioni per la meditazione

 Nel racconto di Emmaus, lo “spezzare il pane”, l’Eucaristia quindi, ha una relazione con l’apertura degli occhi: «Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma lui sparì dalla loro vista» (v. 31). Questo riconoscimento nella visione contrasta con quanto era stato detto prima: «Egli [Gesù] camminava con loro, ma i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo» (v. 16).
Si assiste ad una trasformazione del “vedere”: Gesù Risorto, pur non potendo essere visto con gli occhi del corpo è, tuttavia, presente nel cuore dei suoi discepoli; è un vedere che sottolinea una profonda esperienza interiore che avviene nell’atto dello spezzare il pane.
Il “vedere in trasparenza” inaugurato dallo spezzare il pane, orienta, anzitutto, verso il futuro: «Ma lui sparì dalla loro vista» (v. 32). L’Eucaristia, potremmo dire, è il sacramento della presenza del Risorto, ma anche il banchetto della “nostalgia” per l’attesa piena dell’avvento definitivo del Risorto e la sua visione sfolgorante. Una nostalgia, tuttavia, vissuta non nella tristezza, ma nella gioia della condivisione. I due se ne tornano a Gerusalemme e raccontano la loro gioia nell’avere riconosciuto il Signore nello spezzare il pane.
Il “vedere” inaugurato dalla fractio panis rimanda anche al passato; riporta in un altro luogo, dove si è consumato un altro spettacolo: il calvario. Di fronte alla crocifissione di Gesù, Luca commenta: «Tutte le folle che erano venute insieme a questo spettacolo, vedendo le cose accadute, se ne tornavano percotendosi il petto» (Lc 23,48). Il Terzo Vangelo descrive l’atteggiamento delle folle di Gerusalemme, di fronte alla morte di Gesù, come la partecipazione ad uno spettacolo pubblico. Vedere lo spettacolo concreto di Gesù di Nazaret, il Re dei giudei, crocifisso non lascia indifferenti, ma sospinge ad un cambiamento: «se ne tornavano percotendosi il petto». Si percuotono il petto, perché nella visione di Gesù crocifisso, intravedono la rivelazione di un Dio che è «amore per l’uomo».
La trasformazione del vedere, che coglie nella “fractio panis” la presenza del Risorto, e la visione dello “spettacolo” del Crocifisso, è ciò che la tradizione della Chiesa ha chiamato “contemplazione”. Contemplare significa, anzitutto, vedere in ogni gesto ed in ogni parola di Gesù, in particolare nella sua morte e risurrezione, la «trasparenza» dell’amore del Dio Trinità per gli uomini.
In questo orizzonte, l’Eucaristia è contemplazione e luogo di contemplazione. Essa, infatti, è l’evento nel quale il Cristo Risorto viene a noi, apre i nostri occhi, così che possiamo vedere il suo mistero di morte e di risurrezione come “il luogo” della rivelazione dell’amore del Dio Trinità per gli uomini e per il mondo. Nell’Eucaristia i nostri occhi si aprono e noi possiamo continuare nell’oggi a “vedere lo spettacolo” di Gesù Risorto che, nello Spirito eterno, continuamente si dona al Padre per gli uomini tutti. Nell’Eucaristia noi siamo invitati al banchetto del Dio Trinità, il quale ci apre gli occhi su se stesso e ci invita a partecipare al suo mistero di comunione.
L’Eucaristia “fa vedere” il Padre come colui che ama e consegna il Figlio: «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo costituì peccato in nostro favore» (cf. 2Cor 5,21). Il Padre ama immensamente noi peccatori da «costituire» peccato il proprio Figlio. Questo atto di consegna rivela la dimensione infinita dell’amore divino: «Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme con lui?» (Rm 8,32). Per ritrovare l’alleanza d’amore con l’uomo peccatore, ma ancora capace di libera accoglienza, il Padre dona nel tempo il Figlio suo, al quale è eternamente donato. Dio Padre è tale perché, nella pienezza della totalità divina, si concede al Figlio, eterno con lui nella gloria. Il darsi del Padre è una specie di primo abbassamento nella vita della Trinità. Egli non trattiene niente per sé, se non la paternità. Paternità che è uscire da sé per generare il Figlio. L’Eucaristia è svelamento della paternità di Dio Padre.
L’Eucaristia “fa vedere” il Figlio. Mentre il Padre è colui che tutto dona, generando, il Figlio è colui che tutto accoglie, obbedendo. Il Figlio, in quanto tale, è atto eterno d’amore ed espressione creaturale dell’obbedienza al Padre. Il Figlio eterno è colui che accoglie il silenzio e la volontà del Padre: «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?» (cf. Mr 15,34); «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (cf. Lc 23,46); «Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, diventando lui stesso maledizione per noi» (Gal 3,13). Trovandosi nell’abisso dell’abbandono, il Figlio «imparò l’obbedienza da ciò che patì» (cf. Eb 5,8). Se il Padre è puro dono, il Figlio è totale accoglienza in seno alla Trinità e sulla croce. L’Eucaristia è svelamento della figliolanza di Cristo Gesù.
L’Eucaristia “fa vedere” lo Spirito Santo. Egli è il “vincolo” d’amore e di sofferenza tra Padre e Figlio. Lo Spirito, anche se detto impropriamente, è il «luogo», il «dove» in cui il Padre si dona al Figlio e il Figlio eterno accoglie il Padre ridonandosi a lui. In questo senso lo Spirito è vincolo d’amore. Al Calvario, tuttavia, egli si fa pure vincolo nella sofferenza. Il Figlio è reso peccato, è fatto maledizione, è gettato nell’abisso della lontananza che il peccato ha introdotto tra l’uomo e Dio. Gesù Cristo, il Figlio eternamente vicino al Padre nella Trinità, sulla croce esperimenta la «distanza». Pure nel paese straniero, il Figlio persevera nell’invocazione al Padre: «Dio mio Dio mio perché mi hai abbandonato?» (cf. Sal 22,1). Lontano dal Padre, il Figlio, «mosso dallo Spirito eterno», continua ad abbandonarsi come Figlio nella preghiera e nell’offerta «di se stesso senza macchia a Dio» (cf. Eb 9,14). Lo Spirito è colui che mantiene i «Tre» nel vincolo dell’unità proprio nell’istante della lontananza. Egli, in quanto vincolo di amore quando il Padre e il Figlio sono vicini, sulla croce si mostra come vincolo nella sofferenza, il luogo divino dove il Padre e il Figlio continuano ad invocarsi pur sperimentando la consegna e l’abbandono. L’Eucaristia è svelamento dello Spirito come «persona-dono-che-si-dona».

II. Lo “spezzare del pane” in comunità (Atti 20,7-12)

 Indicazioni per la lettura

Paolo è in viaggio verso Gerusalemme. Dopo molteplici traversie giunge a Troade. Prima di ripartire, «il primo giorno della settimana», si raduna con i fratelli e celebra con loro la fractio panis. Qui accade qualcosa che, se letto in termini simbolici, rivela un rapporto insospettato tra Eucaristia domenicale e comunità cristiana.
Sono raccolti insieme nella «stanza superiore», che richiama quello stesso luogo nel quale stavano riuniti i Dodici con Maria e altre donne alla vigilia di Pentecoste e ricorda la stanza più importante della casa destinata alle riunioni (At 9,37.39). I cristiani riuniti per spezzare il pane, compiono un gesto che li costituisce Chiesa «dall’interno». 
La «luce delle lampade» indica il luogo della luce e della vita. In altri termini, dove ci si raccoglie per ascoltare la Parola e spezzare il pane si partecipa alla luce che non tramonta e alla vita che non ha fine.
Mentre Paolo «dialoga» con i suoi ospiti, «prolungando la Parola» in un’atmosfera di festa, ravvivata dalla luce delle molte lampade, un ragazzo di nome Eutico (cioè “buona Fortuna”), preso dal «sonno», «cade» dalla finestra del «terzo» piano sulla quale si era seduto per ascoltare. Vanno a soccorrerlo, ma si raccoglie (alla lettera «si eleva») un «morto». Paolo «discende», «si getta su di lui», lo abbraccia e annuncia che di nuovo «la sua anima è in lui», come aveva fatto Elia quando aveva ricondotto alla vita il figlio della vedova di Zarepta (cf. 1Re 17,21) e come aveva fatto Eliseo con il figlio della Sunammita (cf. 2Re 4,34-35).
Dopo tutto questo, Paolo «sale» per spezzare il pane e continua la sua «omelia», discorrendo come i pellegrini di Emmaus, fino «alla luce del giorno». Il ragazzo ricondotto «vivente» ai suoi cari è chiamato «figlio-servo» (pais), come Gesù dodicenne ritrovato nel Tempio (Lc 2,43).

Tutti i termini evidenziati, appartengono al simbolismo della Pasqua del Signore:

  • Lo spezzare il pane mostra la presenza del Risorto e la sua vicinanza nella comunità raccolta. In questo senso essa è lo «spazio» della luce e della vita, situato al piano superiore.
  • Il «sonno» del ragazzo è segno di non-partecipazione; la non-partecipazione alla luce e alla vita porta alla «caduta» nelle tenebre e nella morte. La solitudine del sonno esclude dalla comunione della festa.
  • Rivolgendosi direttamente al ragazzo morto, Paolo, l’apostolo, opera la risurrezione ad una vita nuova. Avviene, così, un cambiamento di direzione dalla morte alla vita, dalla solitudine mortale alla comunione della Parola e del pane spezzato, dalle tenebre del «fuori» alla luce del «dentro». 

Indicazioni per la meditazione

«L’Eucaristia fa la Chiesa e la Chiesa fa l’Eucaristia» (H. de Lubac).

Quando la Chiesa celebra l’Eucaristia, si esprime in pienezza come Corpo di Cristo. Come è noto, quello che noi oggi chiamiamo Corpus Christi, fino al secolo XIII, indicava non il sacramento dell’Eucaristia, ma la Chiesa costituita da Cristo capo e dai fedeli suo corpo. L’Eucaristia – chiamata Corpus misticum – era considerata il segno sensibile ed efficace del Corpus Christi.
Lo Spirito Santo trasforma il pane e il vino nel corpo e nel sangue di Cristo e plasma la Chiesa come suo corpo. In questo orizzonte possiamo rileggere con più intensità due testimonianze.
La prima dalla Redemptor hominis (n. 20) «È verità essenziale, non soltanto dottrinale ma anche esistenziale, che l’Eucaristia costruisce la Chiesa, e la costruisce come autentica comunità del popolo di Dio, come assemblea dei fedeli, contrassegnata dallo stesso carattere di unità, di cui furono partecipi gli apostoli ed i primi discepoli del Signore. L’Eucaristia costruisce sempre nuovamente questa comunità e unità; sempre la costruisce e la rigenera sulla base del sacrificio di Cristo stesso, perché commemora la sua morte sulla croce, a prezzo della quale siamo stati redenti da lui. Perciò, nell’Eucaristia tocchiamo, si potrebbe dire, il mistero stesso del corpo e del sangue del Signore».
La seconda da san Giovanni di Damasco: «[L’Eucaristia] è detta partecipazione; grazie ad essa infatti prendiamo parte alla divinità di Gesù. È detta ed è realmente una comunione: poiché essa ci fa comunicare col Cristo e ci rende partecipi della sua carne e della sua divinità; ma attraverso essa comunichiamo e siamo uniti anche gli uni agli altri. Poiché partecipiamo di un solo pane, noi tutti diveniamo l’unico corpo e l’unico sangue di Cristo e diveniamo gli uni membra degli altri, poiché facciamo parte dell’unico corpo di Cristo».

L’Eucaristia come «farmaco di immortalità».

Nell’Eucaristia la Chiesa ama fino ad annunciare non solo la morte del Signore, ma anche la propria morte. La Chiesa proclama con Ignazio d’Antiochia che l’Eucaristia è «farmaco di immortalità, antidoto per non morire, ma vivere in Gesù Cristo per sempre». Parimenti la Chiesa riconosce che «l’Eucaristia uccide chi vi partecipa. Essa la vita, ma attraverso la morte: essa è farmaco di immortalità, non evitando la morte, ma aiutandoci a morire d’amore per eternizzarci in una vita d’amore» (G. Dossetti). Il nostro sangue, versato nell’unico calice del sangue di Cristo, è l’adorazione pura e l’offerta senza macchia al Dio vivente per la salvezza nostra e del mondo tutto.

 III. Lo «spezzare il pane» nella difficoltà degli uomini (Atti 27,33-44)

Indicazioni per la lettura

Durante la difficile navigazione verso l’Italia, Paolo assicura l’equipaggio che non corre alcun pericolo di vita, così come gli ha annunciato Dio, attraverso la visione e le parole di un angelo (cf. 27,22-26).
In questa situazione di pericolo e di estrema precarietà, durante la notte, l’Apostolo – dopo «quattordici giorni» di digiuno insieme all’equipaggio – invita tutti a mangiare: «Per questo vi esorto a prendere cibo; è necessario per la vostra salvezza» (At 27,34). Anche se non è la cena eucaristica (la preghiera pronunciata sul pane era, infatti, un’usanza tipica dei Giudei), ne presenta le caratteristiche tanto da diventare una specie di pasto sacramentale.
Il gesto dello spezzare il pane e mangiarne tutti, è il segno dei valori racchiusi in un momento che non sembra aperto al futuro: comunione, desiderio di vivere, provvidenza, presenza di Dio in una storia apparentemente banale, irradiazione di speranza da un prigioniero in catene.
Il pane spezzato, del quale tutti si cibano, ha in sé la potenza di rianimare la vita degli uomini, non soltanto dal punto di vista fisico, ma interiore; la notte della paura e della sfiducia nei mezzi umani, viene illuminata dal pane disceso dal cielo «perché chi ne mangia non muoia» (Gv 6,50).
Il nuovo giorno porta la salvezza per i naufraghi, anche se si presentano difficoltà da superare nell’approdo (cf. 27,41) e resistenze da vincere nei cattivi pensieri degli uomini (cf. 27,42).

Indicazioni per la meditazione

L’Eucaristia, evento e luogo di contemplazione, sacramento di Cristo e della Chiesa è anche il «cuore del mondo». Partecipare alla cena del Signore non significa estraniarsi dalla vita quotidiana, ma vederla con gli occhi di Dio e quindi scoprire il fuoco nascosto delle cose, la verità profonda di ogni essere e di ogni evento e collaborare con fiducia e speranza per un mondo nuovo e un’umanità riconciliata nell’amore.
In questo senso il cristiano che vive l’Eucaristia è chiamato a percorrere sentieri di vita e di pace.

Il cristiano nutrito dall’Eucaristia desidera aprirsi all’universalità. Sta in una comunità ecclesiale concreta, ma col cuore aperto al mondo intero. Per questo, è costantemente all’opera per vincere le chiusure, per aprire le asfissie del piccolo luogo, del piccolo gruppo. Si dà da fare per aprire un cristianesimo che tende a rimanere «paesano» e che tende a chiudersi «in una cultura». Una comunità autenticamente eucaristica è tende a formarsi un senso planetario dell’esperienza cristiana, una conoscenza e un rispetto delle culture, una visione del movimento storico del mondo.

Il cristiano nutrito dall’Eucaristia si carica di intercessione e di compassione. Si apre al cammino beatitudinale concretizzato in un cuore puro, mite e pacifico. «Un cuore – per dirla ancora con Isacco il Siro – che arde per tutta la creazione, per gli uomini e per gli uccelli, per gli animali della terra, per i demoni, per ogni creatura. Quando l’uomo pensa ad essi, quando li vede, i suoi occhi versano lacrime. Così forte e così violenta è la sua compassione... che il suo cuore si spezza quando vede il male e la sofferenza inflitte anche solo alla più umile delle creature. Per questo egli prega fra le lacrime, senza interruzione... anche per i “serpenti”, nell’immensa compassione che sorge dal suo cuore, senza limiti, ad immagine di Dio».

Una comunità nutrita dall’Eucaristia si impegna per la vita e la pace del mondo. Sa di essere «la Chiesa nella città; non per dominarla, non per asservirla, non per clericalizzarla, ma per darle il supplemento di anima, che spesso le manca; per renderla, pur rimanendo nel suo ambito profano e terrestre, simbolo e preannuncio della città celeste» (E. Bartoletti). Il cristiano che vive l’Eucaristia si impegna per la vita e la pace del mondo con la consapevolezza che «lo Spirito è il grande rammendatore del quotidiano», come è stato affermato. La forza e la bontà dello Spirito agiscono nel cuore del cristiano e lo rendono capace, attraverso tanti umili gesti e uno sguardo che non giudica ma accoglie e fa esistere, di rammendare incessantemente il tessuto dell’essere che l’odio e la crudeltà continuamente lacerano. Il cristiano rammendatore è, allora, un uomo e una donna che si meraviglia di ogni vita e che accoglie l’altro come una rivelazione. Egli sa che, come l’apertura alla rivelazione esige ascolto, preghiera, vigilanza e, al limite, morte, così la conoscenza dell’altro domanda amorevole attenzione in quanto ogni persona trattiene un mistero che svela la sua luminosità solo nella conoscenza paziente e creativa dell’amore.

 Per l’unità della comunità ecclesiale

Ti rendiamo grazie, o Padre nostro,
per la vita e la conoscenza che ci hai concesso
per mezzo di Gesù, tuo Figlio.
 Come questo pane spezzato,
prima sparso sui colli, è stato raccolto per farne uno solo,
così raccogli la tua Chiesa, dispersa nel mondo, nel tuo Regno.
Perché a te è la gloria e la potenza.

 Ti rendiamo grazie, o Padre santo,
per il tuo santo nome che tu hai posto nei nostri cuori;
per la conoscenza, la fede e l’immortalità,
che ci hai concesso per mezzo di Gesù, tuo Figlio.

 Tu, o Signore onnipotente,
hai creato l’universo, a gloria del tuo nome;
Tu hai dato agli uomini il cibo e la bevanda per la loro gioia
affinché ti rendano grazie;
ma a noi Tu hai donato un cibo e una bevanda spirituale
e la vita eterna per mezzo del tuo Figlio.

Ti rendiamo grazie perché sei potente.
Ricordati, o Signore, di liberare la tua chiesa da ogni male
e di renderla perfetta nel tuo amore.
Raccogli dai quattro venti la chiesa che Tu hai santificato,
nel Regno che le hai preparato.
Poiché tue sono la potenza e la gloria nei secoli. Amen

(Dalla Didaché)

 

Signore: che il gallo canti anche per noi!
(LC. 22, 61-62.)

di Giovanni Margarino

 Allora il Signore si voltò e fissò lo sguardo su Pietro, e Pietro si ricordò della parola che il Signore gli aveva detta: "Prima che il gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte". E, uscito fuori, pianse amaramente.

 Tutto era cominciato la sera prima durante la cena di Pasqua, nel giorno degli Azzimi. Pietro in uno slancio di passione aveva detto: "Con te sono pronto ad andare in prigione e alla morte".
Conosciamo Pietro, capace di grande amore per Gesù, pronto a dimostrare con opere e gesti concreti la completa dedizione al suo Signore e Maestro. E che ciò sia vero, non superficialità o fatua promessa, è dimostrato dal suo comportamento nel Getsemani, quando, sfoderata la spada, mozzò un orecchio a una guardia. Allora perché quella risposta così cruda, anche se vera, di fronte a tanta dimostrazione d'amore? "Pietro, io ti dico: oggi il gallo non canterà prima che tu, per tre volte, abbia negato di conoscermi". Avendo ben presente la debolezza della condizione umana, Gesù aveva già messo in conto quel tradimento ed avrebbe potuto apprezzare la pronta reazione di Pietro, invece manda un messaggio preciso: attenzione alle contraddizioni,  attento ai segni, te ne do uno: il canto del gallo.
Poi giunse la notte, avvenne l'arresto nel Getsemani e la traduzione nella casa del sommo sacerdote. Pietro e Giovanni, nonostante la paura, si introdussero nella casa e, stando nel cortile, seguirono gli avvenimenti. Qui Pietro fu riconosciuto una prima, una seconda, una terza volta e a tutti rispose: " No, non sono.".

" No, non sono", sottinteso, discepolo di Gesù; questo modo così asciutto di rispondere rivela anche lo stato d'animo dell'uomo.  Colto nella sua identità da chi gli sta attorno, è preso da paura. Lui, che era disposto a morire per e con il Maestro, avrebbe potuto, ammettendo l'identità, non certo cambiare il corso degli avvenimenti, ma insinuare il dubbio sulla giustizia di quel giudizio tra coloro che lo ascoltavano, avrebbe potuto proclamare la grandezza di Gesù, ricordare le folle osannanti che lo avevano accolto a Gerusalemme, raccontare i miracoli, avrebbe potuto…, ma nulla di tutto questo; la paura lo fa arretrare, lo chiude a qualunque relazione con gli altri: Pietro non c'è, Pietro non è.

La paura è tanta e l'emozione che ne consegue è tale da produrre un'atmosfera d'angoscia nella quale la presenza dell'uomo si rivela fragile e l'equilibrio tra la propria presenza e il mondo, faticosamente costruito, diventa vulnerabile. C'è una dismisura tra la situazione di pericolo e la risposta che l'accompagna, una sproporzione tra l'emozione e l'oggetto che la provoca e la persona, invece di presentarsi alla realtà, se ne allontana; la persona se ne va da sola, si spinge all'estremo limite del vuoto esistenziale, così l'essere scomparso non può più manifestarsi: " No, non sono". L'unica cosa che Pietro riesce a fare è fuggire, fuggire non fisicamente, ma fuggire come presenza, anche se ciò è proprio quello che non avrebbe mai voluto che capitasse.

Gesù aveva previsto questa possibilità, sapeva della debolezza dell'uomo, del suo male oscuro che nasce dalla paura, della sua incapacità a stare in una situazione di pericolo. Aveva già in precedenza ammonito i discepoli: " E quando vi consegneranno nelle loro mani, non preoccupatevi di come o di che cosa dovrete dire, perché vi sarà suggerito in quel momento ciò che dovrete dire: non siete voi infatti a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla per voi." (Mt.10, 19-20), ma non ne aveva mutato la condizione di fragilità.

E Pietro, così chiuso in se stesso, assente al mondo, non più proteso verso chi gli sta dinanzi non è in grado di rammentare le parole che Gesù gli aveva rivolto qualche ora prima e rendersi conto della contraddizione che lo abita. Rinnega a ripetizione perché costante è la situazione di pericolo in cui si trova.

E questa non è solo la condizione di Pietro: anche a noi capita di vivere la paura e di restare paralizzati. Questa può presentarsi nei modi più disparati: nella persona che si impone con la sua arroganza, nello stato di soggezione rispetto a chi è ritenuto essere più forte, nell'incertezza degli avvenimenti, nell'impossibilità di controllare ciò che capita, nella sfiducia nei confronti degli altri, nell'angoscia delle nostre fantasie frutto delle nostre insicurezze. Anche a noi capita di retrarre la nostra presenza, non essere più in grado di relazionarsi con gli altri, negarci come persone, voler sprofondare, sparire, essere quiescenti e silenziosi per non correre pericoli.

E questo negarsi come persona , così com'è capitato a Pietro, può essere l'unica possibilità di esistere/non esistere, cosicché non c'è nemmeno coscienza di questo arretramento e dello scollamento tra la realtà come si vorrebbe vissuta e come la si vive.

Ma Pietro vide il volto del suo Signore, sentì il canto del gallo e pianse amaramente.

Il canto del gallo, il segno: è il canto del gallo che riconduce Pietro alla realtà; è questo segnale della sua presenza nel mondo che lo sveglia dall'incubo dell'assenza (non sono), gli fa prendere coscienza della sua incoerenza, del suo errore, e che lo ricolloca nel dramma di Cristo condannato a morte.

Questo è un momento importante nella formazione della personalità di Pietro, perché impara che la sua volontà, i suoi sentimenti, quando debbono fare i conti con la realtà, non sono sempre facilmente esprimibili; le sue, come le nostre scelte non sono mai assolute, ma debbono essere contestualizzate in situazioni concrete. Così impara vivendo nel mondo che la sua volontà entra in relazione e si confronta con quella degli altri e nello stato di paura diventa perdente; impara che la volontà o la presenza degli altri può essere più forte, vincente non a motivo di una maggiore giustizia, ma per un diverso stato d'animo e un contesto nel quale un uomo si sente più forte di un altro. Comprende che non può avere fiducia solo nella sua determinazione, perché la debolezza della condizione umana non permette all'uomo d'essere autosufficiente, di decidere da solo del proprio destino.

E vide il volto del suo Signore, così capì che solo da lui poteva arrivare la sua salvezza; capì che in quello sguardo poteva trovare la forza per non soccombere nella paura. E’ quello sguardo che permetterà a Pietro di non cadere nel baratro della disperazione, di non vivere quella sconfitta come una disfatta per continuare nel suo cammino di purificazione.

Capire la profonda essenza di questa condizione è la premessa all'affidamento al Padre; comprendere lo stato di povertà che caratterizza la nostra umanità è aprire la porta all'ingresso del Signore nella nostra vita. I Santi sono tali perché hanno anche loro sperimentato la povertà della propria condizione di creature di fronte al Signore; hanno verificato l'inadeguatezza delle loro risposte all'amore loro offerto e con semplicità si sono riconosciuti peccatori, per proclamare nella preghiera e nella vita la loro dipendenza dal Padre, non nella paura della condanna, ma nella fiducia in una forza  che non nasce da sé, ma da Dio.

E quel canto di gallo resterà per Pietro il segno della sua debolezza, del rischio di cedere alla paura, di rifiutare la realtà, quando diventa opprimente, grave, pesante da vivere. Pietro non ha mai smesso di amare Gesù e sul lago, dopo la resurrezione lo ribadirà con forza: "Signore, tu sai tutto: tu sai che ti voglio bene" (Gv. 21, 17), ma questo sentimento, sebbene forte, non gli ha impedito di annientarsi, di fuggire di fronte al pericolo.

Poi non sarà più così! Pietro pentecostale che denuncia il delitto di stato contro Gesù non arretra più, ha finalmente imparato a restare presente a se stesso dinanzi al mondo. E' la sua persona ad essere redenta, ad aver acquistato la capacità di relazionarsi in tutte le situazioni con gli altri uomini.

E tutto questo a partire da una condizione di debolezza riconosciuta, vissuta sulla propria pelle come sconfitta; una sconfitta ed una debolezza che abitano il profondo dell'uomo, ma che Cristo ci fa superare se a lui ci si affida.

 Non è sempre facile riconoscere le nostre carenze, gli arretramenti che attraversano la nostra vita. Conosciamo meglio la condizione di angoscia che si presenta quando siamo sopraffatti dagli altri, quando giustifichiamo le nostre incoerenze, con una morale situazionistica che attribuisce agli altri la responsabilità della nostra debolezza, oppure quando viviamo dei sensi di colpa e di inadeguatezza che ci attanagliano e ci impediscono ogni movimento di crescita. Anche l'angoscia che porta alla disperazione o alla abulia, all'immobilismo, ad un giudizio negativo sul proprio sé, è un atto di autocentratura che ci vede, anche se in negativo, protagonisti.

E allora che il gallo canti anche per noi, affinché anche a noi capiti di leggere le nostre sconfitte come qualcosa che il Signore ha messo in conto, conoscendo la debolezza della nostra condizione umana. Che il canto del gallo sia ammonimento delle difficoltà a restare fedeli ai nostri convincimenti e ai nostri sentimenti, se confidiamo solo nelle nostre forze. Che il canto del gallo ci permetta di avere sempre dinanzi i nostri peccati (Salmo 50) senza angoscia, con pentimento, imparando dalle nostre debolezze a cercare, in Cristo risorto che non è venuto per condannarci, la forza di scoprire una dignità di esseri umani che le vicende della vita a volte non ci consentono di vivere in pienezza.

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La lectio qui pubblicata si trova nel libro:
Giovanni Margarino- Vuoi guarire? Lettura pregata della Parola
Introduzione del Card. Tarcisio Bertone, EDIZIONI OCD, 2005

 

CRISTO “MEDICO”

 di Padre Carlo Fadin ofm.capp. medico

 Gesù nella sua vita terrena è passato sanando e beneficando coloro che incontrava. Numerosi sono nei Vangeli gli episodi di guarigione operati da Gesù.
Uno dei compiti che Gesù affida ai suoi discepoli, quando li invia per partecipare alla sua missione, è proprio quello di curare i malati.
Gesù Cristo quindi non solo riconosce come buono il desiderio di guarigione dell’uomo malato, ma mostra anche con il suo esempio come sia fondamentale per ogni uomo il farsi carico del prossimo malato per curarlo.
Con le parole e con le opere Gesù mostra che la malattia e la sofferenza legata alla malattia non sono punizione di Dio per il peccato dell’uomo, ma che Dio stesso è dalla parte dell’uomo sofferente e opera per la sua guarigione.
Non solo: la potenza con cui Cristo guarisce è sempre da lui stesso associata alla sua potenza salvifica. La capacità di Gesù di guarire dalla malattia fisica è segno eloquente del suo potere di offrire salvezza, cioè liberazione dalla schiavitù del peccato perché l’uomo possa accogliere la salvezza dello “stare” con Dio.
La guarigione che Cristo dona è segno escatologico della salvezza che viene offerta a tutti i peccatori. Eloquente per dire questa associazione tra guarigione e salvezza è la risposta che Gesù offre come spiegazione a coloro che lo interrogavano scandalizzati sul perché frequentasse e mangiasse con i peccatori: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico ma i malati”(Luca 5,31).
Viene così affermato l’agire del medico verso i malati come rivelazione della giustizia di Dio verso i peccatori. Il medico vede nel malato principalmente un uomo che è bisognoso di cure e si adopera nel dare al malato proprio quelle cure di cui ha bisogno per la sua guarigione, senza chiedersi se si merita quelle cure.
Così Gesù ci rivela che Dio vede nell’uomo peccatore un malato grave, poiché il peccato è la vera malattia mortale dell’uomo. La giustizia di Dio è di dare all’uomo malato di peccato la cura efficace che può guarirlo, cioè il perdono.
La giustizia di Dio quindi segue la logica terapeutica del medico: dare ciò di cui il malato (l’uomo) ha realmente bisogno per la sua guarigione (salvezza). Così facendo Cristo rivela come insufficiente e perciò colpevole, la logica retributiva della giustizia dei farisei, cioè dare all’altro ciò che si merita. Secondo questa logica farisaica il peccatore si merita la punizione per il suo peccato.
Non punizione ma perdono è la giustizia di Dio che è quindi giustizia di misericordia, che supera la giustizia dei farisei.
Ogni uomo è esortato da Cristo “medico” a superare la giustizia farisaica per poter entrare nel Regno dei Cieli (Matteo 5,20)cioè è esortato sull’esempio del “buon samaritano” a farsi carico del fratello malato (e perciò bisognoso di cure), “ferito” (nel corpo e nello spirito) che ripetutamente incontra nel cammino della vita.
Il  farsi carico del fratello è quindi segno della stessa misericordia di Dio e perciò segno della salvezza che Dio offre ad ogni uomo.

 

Per la preghiera

Abbandonarsi in Te, Signore,

è credere ad un Padre buono che è Amore

Abbandonarsi in Te, Signore,

è lasciare ogni sicurezza umana

e permettere alla Tua forza di lavorare in noi.

Abbandonarsi in Te, Signore,

è chiedere continuamente un cuore vigilante,

affinché paura e sconforto trovino riposo

in un grido di confidenza che non si spegne.

Abbandonarsi in Te, Signore,

è credere che là dove si vede il buio

esiste quella luce di speranza

alimentata dalla fede nel Tuo Amore

che riscalda.

Abbandonarsi in Te, Signore,

è vivere il terribile abbandono

anche quando ci sentiamo “abbandonati” da Te,

facendo nostro il Tuo grido.

Abbandonarsi in Te, Signore,

è chiedere il dono dell’autentico silenzio,

affinché la Tua Parola di Pace

possa raggiungere le fibre più nascoste del nostro cuore

e della  nostra anima e lì

fluire e rifluire.

Abbandonarsi in Te, Signore

È fissarti con gli occhi appassionati, e talvolta, appesantiti,

in uno sguardo di fede e di amore,

che riscalda le solitudini del nostro cuore

e ci rinsalda in un legame che non si spezza

e non finisce.

Abbandonarsi in Te, Signore,

è fare della vita un’offerta semplice, grata e totale,

senza tenere nulla per sé.

Abbandonarsi in Te, Signore,

è permettere al cuore di lasciarsi andare

alla dolcezza e alla libertà dell’appartenerti.

Abbandonarsi in Te, Signore,

è creder che nel momento

in cui sembra di perdere tutto e di perderci

nel consegnarci,

stiamo costruendo sulla roccia.

Abbandonarsi in Te, Signore,

è deporre le resistenze della propria onnipotenza

per chiedere aiuto a Chi tutto può.

Abbandonarsi in Te, Signore,

ci trasforma a poco a poco in Te,

per diventare luogo di accoglienza e di conforto

per chi si sente abbandonato. E’ credere nella potenza

della tua misericordia che ha guardato la nostra povertà,

in cui hai compiuto prodigi di Grazia.

Aiutaci, Signore, ad abbandonarci in Te,

perché, come Te,

possiamo essere offerta viva

a lode della Tua gloria.

 

P.B.- PORA