PRESENTAZIONE
Carissimi amici,
come di consueto questo numero
del nostro periodico che esce per il Giovedì Santo è dedicato interamente
al Sacerdozio.
Avremo a nostra disposizione
tutta una Lectio sulla Lavanda dei piedi a cura di Don Marcello Brunini,
che, già in passato, ha arricchito la nostra rivista con le sue meditazioni
profonde ed originali.
Soprattutto voi Sacerdoti
portiamo nel cuore in questo giorno in cui ricordate l'istituzione
del Sacerdozio e la vostra chiamata.
Con gratitudine al Signore
per averci chiamate ad essere "per loro" in particolare quest'anno,
in cui abbiamo celebrato il primo decennio della erezione della Piccola
Opera a Congregazione Religiosa ( di cui documenteremo nel prossimo
numero), auguriamo a tutti una Santa Pasqua.
Suor Maria Giuseppina
PER LA MEDITAZIONE
La lavanda
dei piedi:
l’amore di
Gesù e le difficoltà di Pietro
(Gv 13,1-17)
Il
presente contributo riprende in maniera sintetica quanto già esposto
in M. Brunini, Maestro, dove abiti? Donne
e uomini alla sequela di Gesù nel Vangelo di Giovanni, EDB, Bologna
2003, 143-165.
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Indicazioni per la lettura del testo
Contesto e divisione
Il c. 13 apre la
seconda parte del Vangelo di Giovanni, denominata da alcuni esegeti
“il libro della rivelazione” (cc. 13-17). Mentre nella prima parte
del vangelo, denominato “libro dei segni” (cc. 2-12), viene descritta
la manifestazione di Gesù ai Giudei, qui egli si manifesta agli amici,
a quelli che l’hanno accolto e ai quali è stato concesso il potere
di diventare figli di Dio (Gv 1,12).
Il c. 13, che costituisce l’introduzione
a quelli che vengono chiamati i “discorsi di addio” (cc. 14-17), può
essere così suddiviso: a) battuta iniziale (v. 1); b)
introduzione alla lavanda dei piedi (vv. 2-3); c) lavanda dei
piedi (vv. 4-17), che comprende: il gesto di Gesù (vv. 4-5), il dialogo
tra Gesù e Pietro (vv. 6-11), la consegna del “fare” ai discepoli
(vv. 12-17); d) annuncio del tradimento e l’uscita di Giuda
(vv. 18-30); e) esclamazione di Gesù che ormai si sa glorificato
(vv. 31-32). Noi ci soffermiamo sui vv. 1-17
Battuta iniziale (v.
1)
«Prima della festa di Pasqua, Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di
passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel
mondo, li amò sino alla fine (all’estremo)» (v. 1). È questo quasi
un prologo al “libro della rivelazione”.
«Prima della festa di Pasqua». I discorsi
di addio si aprono con una semplice indicazione temporale carica,
tuttavia, di quella profonda densità teologica di cui è pervasa tutta
la sezione. Tutto ciò che ora Gesù sa, dice e fa, avviene nel
quadro della grande festa di Pasqua, la la Pasqua giudaica. In essa
Israele immola l’agnello e fa memoria degli eventi attraverso cui
Dio lo ha liberato dalla schiavitù e lo ha reso suo popolo. È proprio
nel cuore della grande festa ebraica, che Gesù compirà la sua Pasqua,
il suo passaggio esodale da questo mondo al Padre. Giovanni, dicendo
«prima della festa», precisa che, a differenza di ciò che riferiscono
i Sinottici, la scena inizia e si conclude prima della cena pasquale.
Gesù, infatti, verrà innalzato nello stesso momento in cui venivano
immolati gli agnelli pasquali da parte dei Giudei.
In questo preciso contesto, Gesù
conosce
la sua ora, sa in profondità il suo itinerario; è pervaso da
una sovrana conoscenza che l’evangelista, costantemente, mette in
evidenza (cf. vv. 1.3.11).
«Sapendo che era venuta la sua ora».
Questa Pasqua, che Gesù si appresta a vivere, manifesterà in profondità
la sua ora. L’ora delle tenebre: lo scontro con il principe
di questo mondo (Gv 14,30); l’ora della morte e della gloria: il passaggio
da questo mondo al Padre. Lui la conosce: è l’ora che il Padre ha
stabilito (Gv 12,27-28).
In quest’ora suprema, egli è assorbito
da un pensiero: il ritorno al Padre. Dirà ancora: «Sono uscito dal
Padre e sono venuto nel mondo; ora lascio di nuovo il mondo e vado
al Padre» (Gv 16,28). Questo passaggio costituisce l’avvenimento essenziale
che manifesterà la sua vera origine e sarà, per i discepoli, la sorgente
di ogni consolazione, il fondamento della loro gioia, la fonte del
loro coraggio.
Gesù, non solo sa, ma avvolto da tanta
consapevolezza, «fa» e «agisce»: «Avendo amato i suoi che erano nel
mondo, li amò sino alla fine». La battuta iniziale del “libro
della rivelazione” si preoccupa di segnalare l’atto conclusivo della
vita di Cristo, che consiste in un semplice e totale gesto di amore:
«amò i suoi fino alla fine, sino al gesto supremo».
Gesù ama i discepoli. I «suoi» sono le sue pecore, coloro
che il Padre gli ha dato (Gv 10,14.29); coloro che conosce per nome
e che hanno corrisposto alla sua amicizia con l’adesione credente
alla sua persona. In quel «i suoi» si rivela la preoccupazione essenziale
del Signore nel momento in cui si prepara a lasciarli “soli” in «questo
mondo». In quel «i suoi», tuttavia, sono presenti tutti coloro che,
liberamente, aderiranno alla sua parola.
L’amore di Gesù è «sino alla fine». L’amore estremo di Gesù
è la condivisione, con gli uomini, della propria unione con il Padre
e della volontà che il Padre stesso ha su di lui. Amore che, sulla
croce, gli farà dire: «Tutto è compiuto» (Gv 19,30).
L’amore, che ha dominato tutta la vita di Gesù, ora, nell’ultima
Pasqua, si manifesta fino al gesto supremo, il cui compimento e la
cui pienezza riportano all’atto di Dio che ha dato al mondo suo Figlio.
In Gesù, che è luce, si mostra l’amore del Padre. Solo lui può farlo
vedere perché lo riflette, e lo riflette perché lo riceve. Questo
sommo amore espresso nel dono totale di sé, Gesù lo rivela nella lavanda
dei piedi ai discepoli.
Introduzione alla lavanda dei piedi
(vv. 2-3)
Questi versetti collocano il gesto della lavanda dei piedi
durante una cena e individuano i due protagonisti: il demonio e Gesù.
«Durante la cena» (v. 2). La lavanda dei piedi avviene in
atmosfera pasquale, in intima comunione, fraternità e convivialità.
Durante il pasto si stipulavano patti: un pasto suggellò l’alleanza
tra Dio, Mosè e gli anziani di Israele (Es 24,9-11). Il mangiare insieme
di Gesù e i suoi manifesta, dunque, profonda comunionalità e alleanza.
Nel nostro racconto, tuttavia, non si parla solo di un pasto, ma anche
di un boccone offerto da colui che presiede. Questo è un gesto di
ospitalità rivelatore di una relazione intima e personale (Rt 2,14).
In un tale convito è problematica la partecipazione di un
invitato, Giuda. Questi è ispirato dal diavolo, l’avversario: «Quando
il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda Iscariota, figlio di Simone,
di tradirlo» (v. 2). Giuda non tradisce per motivi meschini: nel suo
cuore è all’opera il divisore. «Divenuto strumento del diavolo, Giuda
lo rappresenta; facendo da contrappunto all’amore rivelato, agisce
come un figlio del diavolo, la cui razza è orientata al rifiuto e
all’omicidio (Gv 8,44)».
Di fronte all’avversario c’è Gesù che «sa» e che «fa». «Gesù,
sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani» (v. 3). Gesù
ha piena coscienza del potere sovrano che il Padre gli ha donato,
a cominciare dalla sua vita. Avverte, fin nel suo intimo, di avere
il pieno possesso della missione che il Padre gli ha donato: sa che
gli ha rimesso «tutto nelle mani»; sa qual è l’opera che gli ha dato
da compiere. Il Padre, infatti, da sempre mostra al Figlio tutto quello
che fa (Gv 5,20). La totalità del dono che fa al Figlio esprime la
loro unità, in ordine al compimento della salvezza; questa loro unità,
nei confronti degli uomini, ha la sua fonte originaria nell’unità
stessa in cui vivono il Padre e il Figlio e, insieme, nella dipendenza
del Figlio dal Padre.
Gesù vive di questa divina unità: «sapendo… che era venuto
da Dio e a Dio ritornava» (cf. v. 3). Egli conosce la sua origine,
che è da Dio, ed è cosciente della sua “fine”, che consiste nel ritorno
al Padre. Egli sa che il ritorno al Padre passa attraverso la morte,
e che sarà proprio questa l’ora dell’innalzamento e della glorificazione.
Il mondo ha lasciato l’autentica dimora: il seno del Padre. Il Figlio
esce dal Padre, entra in «questo mondo» e lo riporta a lui. Egli non
è venuto nel mondo per se stesso, ma per coloro che si sono allontanati
dal Padre. Il Padre stesso li ha affidati al Figlio perché li riconducesse
a lui. Il Maestro sa che è giunta l’ora in cui tutto questo si compie.
Egli sa che, per salvare i suoi e mostrare loro la strada che porta
al Padre, si deve separare da essi, li deve abbandonare.
Gesù sa ancora che il ritorno al Padre, da cui è uscito, costituisce
la rivelazione più luminosa della sua origine e del suo essere intimo.
I discepoli lo comprenderanno quando contempleranno il suo ritorno
alla gloria del Padre. Ora, però, sono chiamati a sperimentare la
sua volontaria e amorosa umiliazione.
Gesù, infine, conosce il potere dell’avversario: «Sapeva chi
lo tradiva» (v. 11). Egli è consapevole dell’ombra che continua a
gravare sulla sua ora. Sulla cena del Signore pesa l’ombra
del tradimento: da una parte l’amicizia, dall’altra la volontà di
potenza. Ciò che Gesù sa e fa viene dalla sua unione con Dio. Il traditore
si lascia determinare dal demonio. «Non tutti siete puri» (v. 11).
La purezza è la fede. L’incredulità, tuttavia, accompagna sempre l’appello
di Gesù alla fede. Il cenacolo anticipa il dramma della croce dove
si affrontano Cristo e Satana. Con questa profonda consapevolezza,
Gesù si dona e lava i piedi ai «suoi».
Il gesto di Gesù (vv. 4-5)
Gesù, profondamente
consapevole dell’ora, «si alza da tavola, depone la veste e, prendendo
un asciugamano, se ne cinse; poi versa dell’acqua in un catino e si
mette a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con il panno
di cui si era cinto» (vv. 4-5).
Per comprendere la portata del gesto è opportuno inserirlo
nella cultura e nella mentalità del suo tempo. In Israele, lavare
i piedi ha diverse valenze. È, anzitutto, un atto di accoglienza,
inizio del riposo e si compie prima del pasto (cf. Gen 18,4-5; 24,32-33).
Anche nei Vangeli questi gesti mantengono l’antico significato.
In Luca 7,44, Gesù rimprovera il fariseo: «Sono entrato in casa tua
e tu non mi hai dato l’acqua per i piedi».
Importante è, ancora, scoprire che deputati
a compiere la lavanda sono gli schiavi e le donne. Per esprimere la
propria sottomissione a Davide, che la vuole prendere in moglie, Abigail
dice agli emissari: «Ecco la tua serva è come una schiava per lavare
i piedi ai servi del mio Signore» (1Sam 25,41). La lavanda dei piedi,
proprio perché compiuta dagli schiavi e dalle donne, è una funzione
servile ed esprime una condizione di inferiorità. Era un gesto talmente
disprezzato che persino lo schiavo ebreo poteva disattendere il comando
del padrone. Coloro che lo compivano erano, in definitiva, gli ultimi
degli schiavi.
C’è un altro elemento da considerare.
All’epoca, lo schiavo non solo serviva, ma era anche lo strumento
mediante il quale il padrone poteva raggiungere determinati benefici.
Lo schiavo poteva essere obbligato ad assumere dei ruoli che il padrone
non intendeva ricoprire come fare le sue veci in situazioni pericolose
e addirittura sostituirlo in un duello.
Il lavare i piedi, allora, non esprime
solo una buona accoglienza o il semplice desiderio di offrire benessere
all’ospite, ma avvia un complesso di scambi e di simboli che strutturano
ed evidenziano una trama di rapporti e di relazioni.
Il gesto di Gesù è in continuità e in rottura con la mentalità
della sua epoca. Nel suo gesto tutto è insolito. Colui che lava i
piedi non è un uomo comune, né tanto meno uno schiavo, è il Figlio
di Dio, al quale il Padre ha dato il potere su ogni realtà: è il Maestro
e il Signore.
È un gesto compiuto «durante il pasto», non «prima», come
era consuetudine. È, dunque, un gesto «fuori posto», carico, per ciò
stesso, di nuovo valore simbolico.
Gesù, non servendosi di una “controfigura”, prende lui stesso
il posto del servo, trasforma se stesso in schiavo. Anche il panno
di lino, ossia l’asciugamano, che egli si pone sopra la tunica era
un tipico oggetto usato dagli schiavi durante il pranzo per servire
e asciugare i commensali. Gesù stesso, invertendo la sua posizione,
assume lo status sociale inferiore, la condizione tipica degli
schiavi e delle donne. Nel Vangelo di Luca egli afferma: «Io sto in
mezzo a voi come colui che serve» (Lc 22,27.37). Gesù si presenta
come il servo di Dio disprezzato e umiliato il cui servizio deve andare
fino al sacrificio totale di se stesso per i suoi.
L’orizzonte dischiuso dal gesto della lavanda dei piedi è
talmente profondo che diviene pure una specie di cammino iniziatico
per i discepoli. È compiuto durante la cena, in un luogo ben delimitato,
precluso a chi non è suo discepolo e in un clima fortemente marcato
dall’amore di carità verso di essi, «i suoi». Questa azione,
da
schiavo, che lui, il Maestro e il Signore, compie, sembra avere
lo scopo di far entrare i discepoli in un nuovo ordine di comunione
con lui – «Se non ti laverò, non sarei messo a parte di ciò che è
mio» (v. 9) – e tra di loro.
Il dialogo tra Gesù e Pietro (vv. 6-11)
La realtà dell’inversione operata da Gesù e il carattere
iniziatico della lavanda si esplicitano nel dialogo con Pietro. «Venne
dunque da Simon Pietro e questi gli disse: “Signore, tu lavi i piedi
a me?”» (v. 6).
Pietro comprende l’inversione operata da Gesù. Coglie
con chiarezza come il Maestro, attraverso quel gesto, prende il posto
dello schiavo. Di fronte a ciò egli si ritira spaventato. L’espressione
«tu a me» sottolinea la distanza tra lui e il Signore. Pietro è scandalizzato,
non può accettare di vedere Gesù ai suoi piedi e rifiuta di farsi
lavare. Glielo impedisce la sua concezione di Dio: il luogo divino
è in cielo, lassù; il luogo dell’uomo è in terra, quaggiù. Tommaso
d’Aquino coglie il suo stato d’animo quando gli fa dire: «Tu Signore
che sei l’Agnello incontaminato, specchio senza macchia, candore della
luce eterna, lavi i piedi a me, che sono un peccatore… Tu Signore,
che sei il mio creatore lavi i piedi a me che sono una creatura e
di poca fede? Ciò diceva Pietro atterrito nel considerare la
maestà di Cristo». Accogliere il gesto di Gesù è, per Pietro, sommamente sconveniente,
perché sovverte la concezione stessa di Dio. Il Messia, difatti, è
chiamato ad occupare il trono d’Israele (cf. Gv 6,15; 12,13; 18,10),
non il posto dello schiavo.
«Rispose Gesù: Quello che io faccio, tu ora non lo capisci;
lo capirai dopo» (v. 7). Gesù sembra scusare Pietro per la sua incomprensione.
Il suo gesto è profondamente carico di mistero. Lo comprenderà «dopo»,
quando giungerà lo Spirito. Adesso a Pietro è solo richiesto di lasciar
fare al Signore, di obbedire in silenzio alla richiesta del Maestro.
Ma lui ripete il rifiuto: «No! Tu non mi laverai mai i piedi» (v.
8). Pietro, come la moltitudine di Gerusalemme, vuole che Gesù sia
il capo, il re d’Israele (cf. Gv 12,13); non accetta il suo servizio,
la sua morte per lui. Egli ama, ma non conosce «l’estremo amore»;
non sa cosa vuol dire amare fino alla fine. Lo deve imparare e la
lavanda è proprio questo: iniziazione all’estremo amore.
La risposta di Gesù è una minaccia: «Se non ti laverò, non
sarai messo a parte di ciò che è mio» (v. 8). Si ritrova l’opposizione
«tu-io», ma rovesciata. Gesù desidera colmare la distanza che ancora
lo separa dal discepolo: «non avrai parte con me». «Avere parte»,
nella Bibbia, significa condividere con qualcuno un bene, un’eredità,
anche di ordine sociale o spirituale. L’eredità autentica, tuttavia,
è Dio stesso (cf. Sal 73,26; 142,6). Nel quarto Vangelo «aver parte
con Gesù» vuol dire essere con lui nella casa del Padre (cf. Gv 14,2-6),
partecipare alla gloria che egli riceve dal Padre (cf. Gv 17,24),
vedere il regno di Dio (cf. Gv 3,3), entrare in questo regno (cf.
Gv 3,5), ricevere da Cristo la vita eterna (cf. Gv 6,40). «Avere parte
con me» significa, dunque, comunione e appartenenza definitive a Gesù.
Dichiarando: «Se non ti laverò», Gesù sottolinea l’accesso
alla vita eterna attraverso quel gesto che esprime la realtà della
sua morte. Accogliere la lavanda dei piedi significa accedere alla
comunione perfetta con il Maestro, attraverso una purificazione che
si attua nell’umiliazione di Gesù. Per avere parte con lui, il discepolo
è chiamato ad accogliere il suo umile servizio, a riconoscere la sua
inversione.
Pietro non comprende ancora, va da un eccesso all’altro: «Signore,
non solo i piedi, ma anche le mani e il capo!» (v. 9). Si attacca
al lavacro di purificazione senza comprendere che questo è solo un
mezzo, non il fine. Pur di non separarsi dal Maestro è disposto a
fare quello che egli vuole. Ma la sua è l’adesione alla volontà del
capo; egli continua ad essere un dipendente. Torna, tuttavia, a rivolgersi
a Gesù chiamandolo «Signore».
Gesù, utilizzando forse un proverbio – «Chi ha fatto il bagno,
non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto puro» (v. 10)
– spiega a Pietro che il suo gesto, nonostante l’impiego dell’acqua,
non ha lo scopo di pulire. L’importante è ricevere nella fede quello
che si esprime nel gesto. Il Maestro, difatti, sottolinea: «Voi siete
puri» (v. 10). Dirà ancora: «Puri lo siete per la parola che vi ho
annunciato» (Gv 15,3). I discepoli sono puri perché hanno ascoltato
con fede la parola che è stata rivolta loro. Ora si tratta di accogliere
il totale spogliamento che il Cristo fa di sé a loro favore, in filiale
obbedienza alla volontà del Padre.
Qual è allora il senso del gesto di Gesù? Egli non lo dice.
Cosa possiamo dedurre dal testo? I versetti introduttivi pongono la
lavanda nell’ora del passaggio di Gesù da questo mondo al Padre e
sotto il segno del tradimento, nella prospettiva, ormai imminente,
della passione. È legittimo pensare che, attraverso questo segno simbolico,
Gesù indichi il dono di sé che sta per realizzare consegnandosi
alla morte. «Il suo gesto è figura dell’avvenimento imminente, sotto
l’aspetto dello spossessamento di sé». A questo livello, può essere intenzionale anche la descrizione
della veste «deposta» (v. 4) e «ripresa» (v. 12). I medesimi termini
si ritrovano in Gv 10,17-18: «Ecco perché il Padre mi ama: perché
io depongo la mia vita per riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie,
ma io la depongo da me stesso. Ho il potere di deporla e ho il potere
di riprenderla: questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».
La lavanda dei piedi appare, allora, come un gesto rivelatore.
È anticipazione simbolica del mistero di amore che si renderà presente
sulla croce. Nella prima parte del Vangelo, Gesù, con la “potenza”
delle opere e delle parole, si era presentato come il rivelatore del
Padre; ora, nella seconda parte, egli si fa “lo schiavo”, accogliendo
la sua ora, il suo destino di morte. Il lavare i piedi ai discepoli,
non mostra solo ciò che egli stesso fa, ma rivela Dio come
a servizio dell’uomo, come l’abbassato per l’uomo. Dio l’onnipotente
si mette all’ultimo posto, viene in soccorso della debolezza delle
creature.
Pietro e gli altri (tranne uno) «sono puri», ossia «credono»,
ma sono ancora al di qua dell’avvenimento pasquale.
Gesù, con il suo gesto simbolico, li “inizia” al mistero della sua
morte, li immette nel suo passaggio dal «sapere» al «fare». Quasi
anticipando la sua morte, egli mostra ai discepoli il cammino che
li porterà ad «avere parte» con lui, in quei luoghi misteriosi in
cui egli stesso si trova. In questo contesto, diventano profondamente
cariche di senso alcune parole di Gesù rivolte ai discepoli: «Se qualcuno
viene per servirmi, mi segua e dove sono io, là sarà anche il mio
servo. Se qualcuno viene per servirmi, il Padre mio lo onorerà» (Gv
12,26); «E quando sarò andato a prepararvi un posto, verrò di nuovo
e vi porterò vicino a me, di modo che dove sono io siate anche voi»
(Gv 14,3).
Gesù educa i discepoli a “fare” ciò
che hanno sperimentato (vv. 12-17)
Gesù, dopo aver lavato i piedi, «inizia» i discepoli ad una comprensione
profonda della sua inversione. Chiarisce tre elementi.
a) Relazione Maestro/discepolo (vv. 13-14)
Il gesto di Gesù non prende in considerazione solo il rapporto
schiavo/padrone. La sua inversione produce dei cambiamenti anche nei
rapporti tra il Maestro e i discepoli: «Voi mi chiamate il Maestro
e il Signore, e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore
e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi
gli uni agli altri» (vv. 13-14).
Le relazioni padrone/schiavo e Maestro/discepolo si presentano
come asimmetriche. La prima non prevede mai un avvicinamento tra i
due, anzi, il più delle volte segnala una distanza: i due soggetti
rimangono distinti. Lo dirà Gesù stesso: «Lo schiavo non sa quello
che fa il suo Signore» (Gv 15,15). Nel secondo rapporto, invece, il
discepolo si avvicina al Maestro. Egli è chiamato a partecipare alla
vita del Maestro. È proprio del discepolo tendere a diventare somigliante
al Maestro. Così, mentre l’azione dello schiavo costruisce la posizione
sociale del padrone, l’atto del discepolo, che si muove nella somiglianza
verso il Maestro, non costruisce la realtà e la persona del Maestro,
ma la realtà e la persona stessa del discepolo. Accogliere la lavanda
dei piedi significa assimilarsi a lui e diventare suo discepolo.
Le relazioni padrone/schiavo e Maestro/discepolo, tuttavia,
pur rimanendo asimmetriche, nel discepolato cristiano si intersecano.
La relazione Maestro/discepolo prende forma solo con l’abbassamento
e l’avvicinamento di Gesù alla condizione del discepolo. Solo nel
momento in cui egli inverte il rapporto con i suoi diviene
reale la compartecipazione con lui e si fa concreta la comunione dei
discepoli tra di loro: «anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli
altri» (v. 14).
b) La
qualità dell’imitazione del gesto di Gesù (v. 15)
Il secondo elemento che Gesù chiarisce è la qualità dell’imitazione
del suo gesto: «Vi ho dato un esempio, perché anche voi facciate come
io ho fatto a voi» (v. 15). Gli esegeti sono discordi nell’interpretare
questo versetto.
Alcuni la interpretano come un esempio di amore e di umiltà
che i discepoli sono chiamati a mettere in pratica nei loro rapporti
vicendevoli: «Anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri»
(v. 14). È l’interpretazione che ritroviamo anche nella nuova traduzione
del Nuovo Testamento della Conferenza Episcopale Italiana:
«Capite quello che ho fatto per voi? [frase interrogativa]… Vi ho dato
un esempio infatti perché anche voi facciate come io
ho fatto a voi» (vv. 12.15).
I discepoli di Gesù si qualificano come tali solo se ripetono
vicendevolmente il gesto che «il Maestro e il Signore» ha fatto a
ciascuno: «Un servo non è più grande del suo padrone» (v. 16). I discepoli
di Cristo sono chiamati ad amarsi e aiutarsi reciprocamente, portando
gli uni i pesi degli altri, in spirito di carità fraterna. Il servizio
vicendevole, espresso in un amore estremo, deve diventare la legge
della loro comunità e la norma della loro vita. «Egli ha dato la sua
vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli»
(1Gv 3,16).
Imitare Gesù non è solo riprodurre il suo gesto di servizio
e di umiltà, ma è, piuttosto, fare della propria vita cristiana un
“esistere” per gli altri fino al punto di condividere la passione
di Cristo.
La lavanda dei piedi, tuttavia, anziché un esempio, può essere
considerata come un tipo. Il gesto di Gesù si fa, allora, una
sorta di icona per i discepoli. Essi sono esortati a trarre
le conseguenze di quello che hanno “visto fare” al Maestro. Coloro
che si pongono su questa strada, traducono così il v. 15:
«Capite ciò che vi ho fatto. [frase imperativa non interrogativa]… È
una icona che vi ho dato, perché, in virtù di ciò che
ho fatto per voi, anche voi lo facciate» (vv. 12.15).
Il vocabolo greco che qui traduciamo con «icona» è hypódeigma,
termine che ha una connotazione nettamente visiva, di figura, immagine,
tipo, modello, e non solo l’accezione di esempio da
seguire o meno. Difatti, hypódeigma deriva dal verbo deíknymi
che significa far vedere, mostrare e che, ordinariamente,
ha, in Giovanni, valore teologico. In questo senso, è possibile dispiegare
dinanzi agli occhi una sequenza visiva: a) il Padre mostra al Figlio
tutto ciò che egli fa (cf. Gv 5,20); a sua volta, Gesù mostra ai discepoli
quello che lui stesso fa; b) come il Figlio fa ciò che vede fare dal
Padre, così i discepoli sono invitati a fare quello che hanno visto
fare a Gesù.
Lo sguardo ha, nel quarto Vangelo, una funzione considerevole:
vedere significa essere sorpresi da una presenza, contemplare in profondità.
In questo orizzonte, l’inversione di Gesù non può essere un semplice
esempio esteriore da imitare, ma un tipo, una icona appunto,
che Gesù stesso dona ai suoi. Un po’ liberamente si potrebbe tradurre:
«È una icona che vi ho donato» (v. 15). L’icona donata genera il comportamento
futuro dei discepoli: «perché in virtù di, (non “come”)
ciò che ho fatto per voi, anche voi lo facciate» (v. 15). Tra il gesto
di Gesù e l’amore estremo, che deve caratterizzare ogni aspetto della
vita del discepolo, c’è una relazione genetica. Lavandoci i
piedi, Gesù prende possesso di noi e ci rende adatti a ripetere il
suo gesto gli uni agli altri.
Gesù, dunque, inizia i discepoli a riprodurre il suo fare,
che non significa semplicemente «lavare i piedi», ma servizio reciproco,
fino in fondo, senza riserve. Un servizio che escluda la volontà di
potenza sull’altro e diventi puro abbassamento in virtù di
un Dio fattosi “schiavo” per noi. Proprio perché Gesù ha lavato i
nostri piedi, noi possiamo lavarli ai fratelli. Così, mentre noi ci
laviamo i piedi l’uno all’altro, ripresentiamo il gesto di servizio
e di inversione del Maestro, del Signore, a favore del mondo.
c) La
beatitudine del fare (v. 17)
«Sapendo queste cose, siete beati se le mettete in pratica»
(v. 17). Al termine, Gesù consegna la beatitudine del fare. Il discepolo
è chiamato a passare all’azione, altrimenti la sua fedeltà al Maestro
è vana. Tuttavia, questo fare è inquadrato nel sapere.
È un fare che emerge dalla comprensione profonda di ciò che Gesù ha
compiuto per il discepolo. Questi non mette in pratica una legge estrinseca,
ma fa, in quanto è abitato dalla rivelazione ricevuta,
Cristo medesimo nell’atto di lavare i piedi. Avverte con acutezza
Léon-Dufour: «In questo modo [il discepolo], non riproduce forse,
secondo la propria misura, l’esperienza del Figlio, la cui fedeltà
alla parola del Padre è sempre, in Giovanni, espressione di una conoscenza
perfetta?».
Nota Martini: «È da un mistero contemplativo che nasce tutta
l’azione cristiana: essa ha la sua origine nella disponibilità radicale
di Gesù al servizio nostro, da cui nasce la nostra disponibilità radicale
verso gli altri; in quanto siamo amati da Dio, diventiamo capaci di
metterci verso gli altri in atteggiamento ilare, semplice e disponibile
al servizio». Quanto più mi lascio lavare i piedi da Gesù, tanto più sono
reso capace di aderire alla sua inversione, di conoscere il
Padre e di servire i fratelli fino al dono supremo dell’amore.
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Per un confronto con la vita
Le due “memorie” del
discepolo
Il racconto della lavanda dei piedi
si chiude con l’invito di Gesù a guardare, o meglio ad abitare il
suo gesto per riesprimerlo: «Capite ciò che vi ho fatto!… È una
icona
che vi ho dato, perché, in virtù di ciò che ho fatto per voi,
anche voi lo facciate» (vv. 12.15). L’atto del Maestro, proprio in
quanto gesto rivelatore del mistero di amore della croce, fonda
la comunità dei suoi discepoli, è il suo principio costitutivo e la
sua regola di vita. In questo senso, la lavanda dei piedi viene consegnata
alla memoria esistenziale dei discepoli.
Nella tradizione cristiana, tuttavia, figura anche un’altra memoria: la
memoria eucaristica. Dopo le parole sul pane e sul calice ricolmo
di vino, Gesù dice espressamente: «Fate questo in memoria di me» (cf.
Lc. 22,19; 1Cor 11,24.25). Al cristiano, dunque, sono consegnate due
memorie, una «eucaristico-cultuale», l’altra «esistenziale», una che
si esprime nel gesto sacramentale, evento di continuo attualizzabile,
l’altra che si fa, nella trama della storia, evento irripetibile.
Esiste una sorta di concomitanza tra la memoria eucaristica
e la memoria esistenziale. Ambedue trattengono diverse dimensioni
che è importante rilevare. Anzitutto, un rapporto esplicito tra il
credente e la persona di Gesù, ma in ambiti diversi: uno cultuale,
l’altro esistenziale e quotidiano.
Entrambe le consegne, poi, intendono rendere presente, nella
vita del discepolo, il Cristo attualmente «assente». Attraverso la
memoria eucaristico-cultuale, il cristiano è chiamato a riprodurre
le azioni di Gesù espresse durante l’istituzione della cena: «Fate
questo in memoria di me». Attraverso la memoria esistenziale, è consegnato
ai fratelli e tutta la sua vita non può essere altro che umile servizio
ad essi.
Ambedue le «memorie», infine, hanno la funzione di costituire
la comunità dei discepoli di Gesù. Per ciò stesso è necessario che
rimangano in relazione e anche in tensione reciproca, in quanto l’una
non può sussistere senza l’altra.
Lavanda dei piedi – memoria esistenziale – da un lato ed eucaristia
– memoria cultuale – dall’altro si richiamano vicendevolmente. La
presenza eucaristica del Cristo fonda l’amore fraterno, la lavanda
dei piedi è l’azione necessaria che apre l’atto cultuale e lo invera
nell’amore vicendevole.
Così, se l’eucaristia fa la Chiesa, la Chiesa, vivendo vicendevolmente
la lavanda dei piedi, fa l’eucaristia. Infatti, se l’eucaristia fa la Chiesa, l’icona della lavanda
dei piedi rimane l’atto fondatore e il gesto generatore con il quale
la Chiesa medesima si sostiene. Il discepolo, che permane in queste
due memorie, è posto nella condizione di annunciare al mondo la presenza
del Risorto. Sta scritto: «Come sono belli sui monti, i piedi del
messaggero di lieti annunzi che annunzia la pace, messaggero di bene
che annunzia la salvezza, che dice a Sion: Regna il tuo Dio. Senti?
Le tue sentinelle alzano la voce, insieme gridano di gioia, perché
vedono con gli occhi il ritorno del Signore in Sion» (Is 52,7-8; cf.
Rm 10,15).
Un discepolato al “maschile”
Nella lavanda dei piedi, Pietro è costretto dal Maestro
e dal Signore ad acconsentire alla sua inversione. È chiamato
ad aderire alla sua passione, alla sua umiliazione, alla sua obbedienza
al Padre in favore degli uomini. Simone di Giovanni, la roccia, pur
non comprendendo, deve scegliere che il Maestro, amato sopra
ogni cosa, soffra per lui. Pietro ama Gesù ed è disposto a dare la
vita per lui, ma l’amore che il Signore gli chiede non va solo in
questa direzione. Gesù domanda al discepolo di accogliere la volontà
che il Padre stesso ha su di lui: egli è il Figlio che si spoglia
per lavare i piedi ai suoi. Colui che ama veramente, quando è posto
dinanzi al dilemma di soffrire lui stesso o lasciare nel dolore l’amato,
senza alcuna esitazione, si pone a disposizione per l’altro. Per il
discepolo di Gesù questa è solo una parte della verità. Emerge la
gloria, nell’amore cristiano, solo quando il discepolo lascia che
l’amico e Maestro compia, nello Spirito, la sua obbedienza al Padre
proprio per lui, per la sua stessa salvezza di discepolo.
Pietro,
quale rappresentante della Chiesa ministeriale, ha grande difficoltà
a lasciare che il Cristo compia il suo cammino verso il Padre e verso
i suoi nella pura obbedienza al volere del Padre stesso. Per questa
sua riluttanza, Cristo lo costringe al suo sì sacrificale aprendolo
alla comunione con un Dio che si pone ai suoi piedi e glieli lava.
A questo proposito Martini afferma: «Pietro intuisce che in
quell’essere lavato da Cristo si rivela che egli deve tutto a lui.
Bisogna che Pietro si lasci penetrare talmente dall’amore del Padre
nel Figlio, da essere in tutto dipendente da Dio – come il Figlio
dal Padre – e da dover vivere talmente in questa dipendenza di amore
e di riconoscenza, alla quale il cuore umano non è pronto ad aprirsi,
proprio perché noi tutti desideriamo piuttosto salvarci da noi. È
difficile accettare l’amore di Dio, è difficile accettare Gesù che
ci vuol servire, come è difficile far accettare ad altri un nostro
servizio, se prima non riconosciamo che noi stessi abbiamo ricevuto
da Dio».
La lavanda dei piedi mostra, in tutta la sua specificità,
la forma di sequela maschile. A differenza delle donne, che acconsentono
che il Cristo percorra la via tracciata dal Padre e si pongono in
questa sua sequela, Pietro vuole lui stesso dettare al Maestro la
via da percorrere. È Gesù a costringerlo a lasciarsi lavare i piedi.
Il discepolo “maschio” è chiamato, allora, a lasciarsi fare dal Maestro,
a lasciarsi servire da lui, ad accogliere il “modo” attraverso cui
il Padre lo raggiunge in Gesù che solo lo ama in maniera divina e
lo rende capace di fare altrettanto ai fratelli.
Lavanda dei piedi e impegno per la pace
Il gesto della lavanda dei piedi è un atto di inversione in
cui Dio si rivela a servizio dell’uomo. Dio, in Gesù, è l’abbassato
per l’uomo. Dio fatto uomo si fa servo dell’uomo; l’amore del Padre
viene in soccorso della debolezza della creatura; il Messia si mette
all’ultimo posto; l’autorità si fa servizio. Nel gesto di Gesù, allora,
si fa luce una concezione di giustizia rintracciabile nelle stesse
leggi del Giubileo che troviamo nel libro del Levitico (c. 25): l’esigenza
del perdono, la liberazione reciproca, la remissione dei debiti e
dei peccati. Nel gesto della lavanda dei piedi si consuma la radicalità
del vangelo della pace, della pienezza di vita, della misericordia,
della grazia, della mitezza.
Lo stesso Giovanni Paolo II si è fatto portavoce di questa
radicalità nel suo messaggio per la Pace dell’anno 2002. Scrive il
Papa: «I pilastri della vera pace sono la giustizia e quella particolare
forma dell’amore che è il perdono. Ma come parlare, nelle circostanze
attuali, di giustizia e insieme di perdono quali fonti e condizioni
di pace? La mia risposta è che si può e si deve parlarne nonostante
la difficoltà che questo discorso comporta, anche perché si tende
a pensare alla giustizia e al perdono in termini alternativi. Ma il
perdono si oppone al rancore e alla vendetta, non alla giustizia.
(…) Ma poiché la giustizia umana è sempre fragile e imperfetta esposta
com’è ai limiti e agli egoismi personali e di gruppo, essa va esercitata
e, in certo senso, completata con il perdono che risana le ferite
e ristabilisce in profondità i rapporti umani turbati».
La lavanda dei piedi, vissuta come impegno per la giustizia
e offerta di perdono, può contribuire alla costruzione della pace
sociale, politica ed economica.
-
Per la preghiera
Il
mio Signore depone la veste, si cinge di un asciugatoio,
versa
dell’acqua nel catino e lava i piedi ai suoi discepoli:
anche
a noi egli vuole lavare i piedi;
non
solo a Pietro, ma anche a ciascun fedele dice:
«Se
non ti laverò i piedi, non avrai parte con me».
Vieni,
Signore Gesù, deponi la veste che hai indossato per me;
spogliati, per rivestirci della tua misericordia.
Cingiti
di un asciugatoio, per cingerci con il tuo dono, che è l’immortalità.
Metti
dell’acqua nel catino,
e
lavaci non soltanto i piedi, ma anche il capo,
non
solo i piedi del nostro corpo, ma anche quelli dell’anima.
Voglio
deporre tutta la lordura della nostra fragilità.
Quanto
è grande questo mistero!
Quasi
fossi un servitore lavi i piedi ai tuoi servi,
e
come Dio mandi dal cielo la rugiada.
Ma
solo tu ci lavi i piedi, ci inviti anche ad assiderci a tavola con
te,
e
ci esorti con l’esempio della tua condiscendenza:
«Voi
mi chiamate Signore e Maestro, e dite bene, perché lo sono.
Se
vi ho lavato i piedi, io che sono il Signore e il Maestro,
anche
voi lavatevi i piedi l’un l’altro».
Voglio
lavare anch’io i piedi ai miei fratelli,
voglio
osservare il comandamento del Signore.
Egli
mi comandò di non aver vergogna,
di
non disdegnare di compiere quello che lui stesso aveva fatto prima
di me;
il
mistero dell’umiltà mi è di vantaggio:
mentre
detergo gli altri, purifico le mie macchie.
Amen
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