"PICCOLA OPERA REGINA APOSTOLORUM"

n. 2 - aprile 2004



solo alcuni articoli

 

PRESENTAZIONE

Carissimi amici,

come di consueto questo numero del nostro periodico che esce per il Giovedì Santo è dedicato interamente al Sacerdozio.
Avremo a nostra disposizione tutta una Lectio sulla Lavanda dei piedi a cura di Don Marcello Brunini, che, già in passato, ha arricchito la nostra rivista con le sue meditazioni profonde ed originali.
Soprattutto voi Sacerdoti portiamo nel cuore in questo giorno in cui ricordate l'istituzione del Sacerdozio e la vostra chiamata.
Con gratitudine al Signore per averci chiamate ad essere "per loro" in particolare quest'anno, in cui abbiamo celebrato il primo decennio della erezione della Piccola Opera a Congregazione Religiosa ( di cui documenteremo nel prossimo numero), auguriamo a tutti una Santa Pasqua.

Suor Maria Giuseppina

 

PER LA MEDITAZIONE
 

La lavanda dei piedi:
l’amore di Gesù e le difficoltà di Pietro
(Gv 13,1-17)


 Il presente contributo riprende in maniera sintetica quanto già esposto in M. Brunini, Maestro, dove abiti? Donne e uomini alla sequela di Gesù nel Vangelo di Giovanni, EDB, Bologna 2003, 143-165.

  1. Indicazioni per la lettura del testo

 Contesto e divisione

Il c. 13 apre la seconda parte del Vangelo di Giovanni, denominata da alcuni esegeti “il libro della rivelazione” (cc. 13-17). Mentre nella prima parte del vangelo, denominato “libro dei segni” (cc. 2-12), viene descritta la manifestazione di Gesù ai Giudei, qui egli si manifesta agli amici, a quelli che l’hanno accolto e ai quali è stato concesso il potere di diventare figli di Dio (Gv 1,12).

Il c. 13, che costituisce l’introduzione a quelli che vengono chiamati i “discorsi di addio” (cc. 14-17), può essere così suddiviso: a) battuta iniziale (v. 1); b) introduzione alla lavanda dei piedi (vv. 2-3); c) lavanda dei piedi (vv. 4-17), che comprende: il gesto di Gesù (vv. 4-5), il dialogo tra Gesù e Pietro (vv. 6-11), la consegna del “fare” ai discepoli (vv. 12-17); d) annuncio del tradimento e l’uscita di Giuda (vv. 18-30); e) esclamazione di Gesù che ormai si sa glorificato (vv. 31-32). Noi ci soffermiamo sui vv. 1-17

Battuta iniziale (v. 1)

 «Prima della festa di Pasqua, Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine (all’estremo)» (v. 1). È questo quasi un prologo al “libro della rivelazione”.
«Prima della festa di Pasqua». I discorsi di addio si aprono con una semplice indicazione temporale carica, tuttavia, di quella profonda densità teologica di cui è pervasa tutta la sezione. Tutto ciò che ora Gesù sa, dice e fa, avviene nel quadro della grande festa di Pasqua, la la Pasqua giudaica. In essa Israele immola l’agnello e fa memoria degli eventi attraverso cui Dio lo ha liberato dalla schiavitù e lo ha reso suo popolo. È proprio nel cuore della grande festa ebraica, che Gesù compirà la sua Pasqua, il suo passaggio esodale da questo mondo al Padre. Giovanni, dicendo «prima della festa», precisa che, a differenza di ciò che riferiscono i Sinottici, la scena inizia e si conclude prima della cena pasquale. Gesù, infatti, verrà innalzato nello stesso momento in cui venivano immolati gli agnelli pasquali da parte dei Giudei.
In questo preciso contesto, Gesù conosce la sua ora, sa in profondità il suo itinerario; è pervaso da una sovrana conoscenza che l’evangelista, costantemente, mette in evidenza (cf. vv. 1.3.11).
«Sapendo che era venuta la sua ora». Questa Pasqua, che Gesù si appresta a vivere, manifesterà in profondità la sua ora. L’ora delle tenebre: lo scontro con il principe di questo mondo (Gv 14,30); l’ora della morte e della gloria: il passaggio da questo mondo al Padre. Lui la conosce: è l’ora che il Padre ha stabilito (Gv 12,27-28).
In quest’ora suprema, egli è assorbito da un pensiero: il ritorno al Padre. Dirà ancora: «Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; ora lascio di nuovo il mondo e vado al Padre» (Gv 16,28). Questo passaggio costituisce l’avvenimento essenziale che manifesterà la sua vera origine e sarà, per i discepoli, la sorgente di ogni consolazione, il fondamento della loro gioia, la fonte del loro coraggio.
Gesù, non solo sa, ma avvolto da tanta consapevolezza, «fa» e «agisce»: «Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine».  La battuta iniziale del “libro della rivelazione” si preoccupa di segnalare l’atto conclusivo della vita di Cristo, che consiste in un semplice e totale gesto di amore: «amò i suoi fino alla fine, sino al gesto supremo».
Gesù ama i discepoli. I «suoi» sono le sue pecore, coloro che il Padre gli ha dato (Gv 10,14.29); coloro che conosce per nome e che hanno corrisposto alla sua amicizia con l’adesione credente alla sua persona. In quel «i suoi» si rivela la preoccupazione essenziale del Signore nel momento in cui si prepara a lasciarli “soli” in «questo mondo». In quel «i suoi», tuttavia, sono presenti tutti coloro che, liberamente, aderiranno alla sua parola.
L’amore di Gesù è «sino alla fine». L’amore estremo di Gesù è la condivisione, con gli uomini, della propria unione con il Padre e della volontà che il Padre stesso ha su di lui. Amore che, sulla croce, gli farà dire: «Tutto è compiuto» (Gv 19,30).
L’amore, che ha dominato tutta la vita di Gesù, ora, nell’ultima Pasqua, si manifesta fino al gesto supremo, il cui compimento e la cui pienezza riportano all’atto di Dio che ha dato al mondo suo Figlio. In Gesù, che è luce, si mostra l’amore del Padre. Solo lui può farlo vedere perché lo riflette, e lo riflette perché lo riceve. Questo sommo amore espresso nel dono totale di sé, Gesù lo rivela nella lavanda dei piedi ai discepoli.

 Introduzione alla lavanda dei piedi (vv. 2-3)

 Questi versetti collocano il gesto della lavanda dei piedi durante una cena e individuano i due protagonisti: il demonio e Gesù.
«Durante la cena» (v. 2). La lavanda dei piedi avviene in atmosfera pasquale, in intima comunione, fraternità e convivialità. Durante il pasto si stipulavano patti: un pasto suggellò l’alleanza tra Dio, Mosè e gli anziani di Israele (Es 24,9-11). Il mangiare insieme di Gesù e i suoi manifesta, dunque, profonda comunionalità e alleanza. Nel nostro racconto, tuttavia, non si parla solo di un pasto, ma anche di un boccone offerto da colui che presiede. Questo è un gesto di ospitalità rivelatore di una relazione intima e personale (Rt 2,14).
In un tale convito è problematica la partecipazione di un invitato, Giuda. Questi è ispirato dal diavolo, l’avversario: «Quando il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda Iscariota, figlio di Simone, di tradirlo» (v. 2). Giuda non tradisce per motivi meschini: nel suo cuore è all’opera il divisore. «Divenuto strumento del diavolo, Giuda lo rappresenta; facendo da contrappunto all’amore rivelato, agisce come un figlio del diavolo, la cui razza è orientata al rifiuto e all’omicidio (Gv 8,44)».
[1]
Di fronte all’avversario c’è Gesù che «sa» e che «fa». «Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani» (v. 3). Gesù ha piena coscienza del potere sovrano che il Padre gli ha donato, a cominciare dalla sua vita. Avverte, fin nel suo intimo, di avere il pieno possesso della missione che il Padre gli ha donato: sa che gli ha rimesso «tutto nelle mani»; sa qual è l’opera che gli ha dato da compiere. Il Padre, infatti, da sempre mostra al Figlio tutto quello che fa (Gv 5,20). La totalità del dono che fa al Figlio esprime la loro unità, in ordine al compimento della salvezza; questa loro unità, nei confronti degli uomini, ha la sua fonte originaria nell’unità stessa in cui vivono il Padre e il Figlio e, insieme, nella dipendenza del Figlio dal Padre.           
Gesù vive di questa divina unità: «sapendo… che era venuto da Dio e a Dio ritornava» (cf. v. 3). Egli conosce la sua origine, che è da Dio, ed è cosciente della sua “fine”, che consiste nel ritorno al Padre. Egli sa che il ritorno al Padre passa attraverso la morte, e che sarà proprio questa l’ora dell’innalzamento e della glorificazione. Il mondo ha lasciato l’autentica dimora: il seno del Padre. Il Figlio esce dal Padre, entra in «questo mondo» e lo riporta a lui. Egli non è venuto nel mondo per se stesso, ma per coloro che si sono allontanati dal Padre. Il Padre stesso li ha affidati al Figlio perché li riconducesse a lui. Il Maestro sa che è giunta l’ora in cui tutto questo si compie. Egli sa che, per salvare i suoi e mostrare loro la strada che porta al Padre, si deve separare da essi, li deve abbandonare.
Gesù sa ancora che il ritorno al Padre, da cui è uscito, costituisce la rivelazione più luminosa della sua origine e del suo essere intimo. I discepoli lo comprenderanno quando contempleranno il suo ritorno alla gloria del Padre. Ora, però, sono chiamati a sperimentare la sua volontaria e amorosa umiliazione.
Gesù, infine, conosce il potere dell’avversario: «Sapeva chi lo tradiva» (v. 11). Egli è consapevole dell’ombra che continua a gravare sulla sua ora. Sulla cena del Signore pesa l’ombra del tradimento: da una parte l’amicizia, dall’altra la volontà di potenza. Ciò che Gesù sa e fa viene dalla sua unione con Dio. Il traditore si lascia determinare dal demonio. «Non tutti siete puri» (v. 11). La purezza è la fede. L’incredulità, tuttavia, accompagna sempre l’appello di Gesù alla fede. Il cenacolo anticipa il dramma della croce dove si affrontano Cristo e Satana. Con questa profonda consapevolezza, Gesù si dona e lava i piedi ai «suoi».

Il gesto di Gesù (vv. 4-5)

Gesù, profondamente consapevole dell’ora, «si alza da tavola, depone la veste e, prendendo un asciugamano, se ne cinse; poi versa dell’acqua in un catino e si mette a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con il panno di cui si era cinto» (vv. 4-5).
Per comprendere la portata del gesto è opportuno inserirlo nella cultura e nella mentalità del suo tempo. In Israele, lavare i piedi ha diverse valenze. È, anzitutto, un atto di accoglienza, inizio del riposo e si compie prima del pasto (cf. Gen 18,4-5; 24,32-33).
Anche nei Vangeli questi gesti mantengono l’antico significato. In Luca 7,44, Gesù rimprovera il fariseo: «Sono entrato in casa tua e tu non mi hai dato l’acqua per i piedi».
Importante è, ancora, scoprire che deputati a compiere la lavanda sono gli schiavi e le donne. Per esprimere la propria sottomissione a Davide, che la vuole prendere in moglie, Abigail dice agli emissari: «Ecco la tua serva è come una schiava per lavare i piedi ai servi del mio Signore» (1Sam 25,41). La lavanda dei piedi, proprio perché compiuta dagli schiavi e dalle donne, è una funzione servile ed esprime una condizione di inferiorità. Era un gesto talmente disprezzato che persino lo schiavo ebreo poteva disattendere il comando del padrone. Coloro che lo compivano erano, in definitiva, gli ultimi degli schiavi.
C’è un altro elemento da considerare. All’epoca, lo schiavo non solo serviva, ma era anche lo strumento mediante il quale il padrone poteva raggiungere determinati benefici. Lo schiavo poteva essere obbligato ad assumere dei ruoli che il padrone non intendeva ricoprire come fare le sue veci in situazioni pericolose e addirittura sostituirlo in un duello.
Il lavare i piedi, allora, non esprime solo una buona accoglienza o il semplice desiderio di offrire benessere all’ospite, ma avvia un complesso di scambi e di simboli che strutturano ed evidenziano una trama di rapporti e di relazioni.
Il gesto di Gesù è in continuità e in rottura con la mentalità della sua epoca. Nel suo gesto tutto è insolito. Colui che lava i piedi non è un uomo comune, né tanto meno uno schiavo, è il Figlio di Dio, al quale il Padre ha dato il potere su ogni realtà: è il Maestro e il Signore.
È un gesto compiuto «durante il pasto», non «prima», come era consuetudine. È, dunque, un gesto «fuori posto», carico, per ciò stesso, di nuovo valore simbolico.
Gesù, non servendosi di una “controfigura”, prende lui stesso il posto del servo, trasforma se stesso in schiavo. Anche il panno di lino, ossia l’asciugamano, che egli si pone sopra la tunica era un tipico oggetto usato dagli schiavi durante il pranzo per servire e asciugare i commensali. Gesù stesso, invertendo la sua posizione, assume lo status sociale inferiore, la condizione tipica degli schiavi e delle donne. Nel Vangelo di Luca egli afferma: «Io sto in mezzo a voi come colui che serve» (Lc 22,27.37). Gesù si presenta come il servo di Dio disprezzato e umiliato il cui servizio deve andare fino al sacrificio totale di se stesso per i suoi.
L’orizzonte dischiuso dal gesto della lavanda dei piedi è talmente profondo che diviene pure una specie di cammino iniziatico per i discepoli. È compiuto durante la cena, in un luogo ben delimitato, precluso a chi non è suo discepolo e in un clima fortemente marcato dall’amore di carità verso di essi, «i suoi». Questa azione, da schiavo, che lui, il Maestro e il Signore, compie, sembra avere lo scopo di far entrare i discepoli in un nuovo ordine di comunione con lui – «Se non ti laverò, non sarei messo a parte di ciò che è mio» (v. 9) – e tra di loro.

 Il dialogo tra Gesù e Pietro (vv. 6-11)

 La realtà dell’inversione operata da Gesù e il carattere iniziatico della lavanda si esplicitano nel dialogo con Pietro. «Venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse: “Signore, tu lavi i piedi a me?”» (v. 6).
Pietro comprende l’inversione operata da Gesù. Coglie con chiarezza come il Maestro, attraverso quel gesto, prende il posto dello schiavo. Di fronte a ciò egli si ritira spaventato. L’espressione «tu a me» sottolinea la distanza tra lui e il Signore. Pietro è scandalizzato, non può accettare di vedere Gesù ai suoi piedi e rifiuta di farsi lavare. Glielo impedisce la sua concezione di Dio: il luogo divino è in cielo, lassù; il luogo dell’uomo è in terra, quaggiù. Tommaso d’Aquino coglie il suo stato d’animo quando gli fa dire: «Tu Signore che sei l’Agnello incontaminato, specchio senza macchia, candore della luce eterna, lavi i piedi a me, che sono un peccatore… Tu Signore, che sei il mio creatore lavi i piedi a me che sono una creatura e di poca fede? Ciò diceva Pietro atterrito nel considerare la maestà di Cristo».
[2] Accogliere il gesto di Gesù è, per Pietro, sommamente sconveniente, perché sovverte la concezione stessa di Dio. Il Messia, difatti, è chiamato ad occupare il trono d’Israele (cf. Gv 6,15; 12,13; 18,10), non il posto dello schiavo.
«Rispose Gesù: Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo» (v. 7). Gesù sembra scusare Pietro per la sua incomprensione. Il suo gesto è profondamente carico di mistero. Lo comprenderà «dopo», quando giungerà lo Spirito. Adesso a Pietro è solo richiesto di lasciar fare al Signore, di obbedire in silenzio alla richiesta del Maestro. Ma lui ripete il rifiuto: «No! Tu non mi laverai mai i piedi» (v. 8). Pietro, come la moltitudine di Gerusalemme, vuole che Gesù sia il capo, il re d’Israele (cf. Gv 12,13); non accetta il suo servizio, la sua morte per lui. Egli ama, ma non conosce «l’estremo amore»; non sa cosa vuol dire amare fino alla fine. Lo deve imparare e la lavanda è proprio questo: iniziazione all’estremo amore.
La risposta di Gesù è una minaccia: «Se non ti laverò, non sarai messo a parte di ciò che è mio» (v. 8). Si ritrova l’opposizione «tu-io», ma rovesciata. Gesù desidera colmare la distanza che ancora lo separa dal discepolo: «non avrai parte con me». «Avere parte», nella Bibbia, significa condividere con qualcuno un bene, un’eredità, anche di ordine sociale o spirituale. L’eredità autentica, tuttavia, è Dio stesso (cf. Sal 73,26; 142,6). Nel quarto Vangelo «aver parte con Gesù» vuol dire essere con lui nella casa del Padre (cf. Gv 14,2-6), partecipare alla gloria che egli riceve dal Padre (cf. Gv 17,24), vedere il regno di Dio (cf. Gv 3,3), entrare in questo regno (cf. Gv 3,5), ricevere da Cristo la vita eterna (cf. Gv 6,40). «Avere parte con me» significa, dunque, comunione e appartenenza definitive a Gesù.
Dichiarando: «Se non ti laverò», Gesù sottolinea l’accesso alla vita eterna attraverso quel gesto che esprime la realtà della sua morte. Accogliere la lavanda dei piedi significa accedere alla comunione perfetta con il Maestro, attraverso una purificazione che si attua nell’umiliazione di Gesù. Per avere parte con lui, il discepolo è chiamato ad accogliere il suo umile servizio, a riconoscere la sua inversione.
Pietro non comprende ancora, va da un eccesso all’altro: «Signore, non solo i piedi, ma anche le mani e il capo!» (v. 9). Si attacca al lavacro di purificazione senza comprendere che questo è solo un mezzo, non il fine. Pur di non separarsi dal Maestro è disposto a fare quello che egli vuole. Ma la sua è l’adesione alla volontà del capo; egli continua ad essere un dipendente. Torna, tuttavia, a rivolgersi a Gesù chiamandolo «Signore».
Gesù, utilizzando forse un proverbio – «Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto puro» (v. 10) – spiega a Pietro che il suo gesto, nonostante l’impiego dell’acqua, non ha lo scopo di pulire. L’importante è ricevere nella fede quello che si esprime nel gesto. Il Maestro, difatti, sottolinea: «Voi siete puri» (v. 10). Dirà ancora: «Puri lo siete per la parola che vi ho annunciato» (Gv 15,3). I discepoli sono puri perché hanno ascoltato con fede la parola che è stata rivolta loro. Ora si tratta di accogliere il totale spogliamento che il Cristo fa di sé a loro favore, in filiale obbedienza alla volontà del Padre.
Qual è allora il senso del gesto di Gesù? Egli non lo dice. Cosa possiamo dedurre dal testo? I versetti introduttivi pongono la lavanda nell’ora del passaggio di Gesù da questo mondo al Padre e sotto il segno del tradimento, nella prospettiva, ormai imminente, della passione. È legittimo pensare che, attraverso questo segno simbolico, Gesù indichi il dono di sé che sta per realizzare consegnandosi alla morte. «Il suo gesto è figura dell’avvenimento imminente, sotto l’aspetto dello spossessamento di sé».
[3] A questo livello, può essere intenzionale anche la descrizione della veste «deposta» (v. 4) e «ripresa» (v. 12). I medesimi termini si ritrovano in Gv 10,17-18: «Ecco perché il Padre mi ama: perché io depongo la mia vita per riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma io la depongo da me stesso. Ho il potere di deporla e ho il potere di riprenderla: questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».
La lavanda dei piedi appare, allora, come un gesto rivelatore. È anticipazione simbolica del mistero di amore che si renderà presente sulla croce. Nella prima parte del Vangelo, Gesù, con la “potenza” delle opere e delle parole, si era presentato come il rivelatore del Padre; ora, nella seconda parte, egli si fa “lo schiavo”, accogliendo la sua ora, il suo destino di morte. Il lavare i piedi ai discepoli, non mostra solo ciò che egli stesso fa, ma rivela Dio come a servizio dell’uomo, come l’abbassato per l’uomo. Dio l’onnipotente si mette all’ultimo posto, viene in soccorso della debolezza delle creature.
Pietro e gli altri (tranne uno) «sono puri», ossia «credono», ma sono ancora al di qua dell’avvenimento pasquale. Gesù, con il suo gesto simbolico, li “inizia” al mistero della sua morte, li immette nel suo passaggio dal «sapere» al «fare». Quasi anticipando la sua morte, egli mostra ai discepoli il cammino che li porterà ad «avere parte» con lui, in quei luoghi misteriosi in cui egli stesso si trova. In questo contesto, diventano profondamente cariche di senso alcune parole di Gesù rivolte ai discepoli: «Se qualcuno viene per servirmi, mi segua e dove sono io, là sarà anche il mio servo. Se qualcuno viene per servirmi, il Padre mio lo onorerà» (Gv 12,26); «E quando sarò andato a prepararvi un posto, verrò di nuovo e vi porterò vicino a me, di modo che dove sono io siate anche voi» (Gv 14,3).
[4]

Gesù educa i discepoli a “fare” ciò che hanno sperimentato (vv. 12-17)

Gesù, dopo aver lavato i piedi, «inizia» i discepoli ad una comprensione profonda della sua inversione. Chiarisce tre elementi.

 a)      Relazione Maestro/discepolo (vv. 13-14)

 Il gesto di Gesù non prende in considerazione solo il rapporto schiavo/padrone. La sua inversione produce dei cambiamenti anche nei rapporti tra il Maestro e i discepoli: «Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri» (vv. 13-14).
Le relazioni padrone/schiavo e Maestro/discepolo si presentano come asimmetriche. La prima non prevede mai un avvicinamento tra i due, anzi, il più delle volte segnala una distanza: i due soggetti rimangono distinti. Lo dirà Gesù stesso: «Lo schiavo non sa quello che fa il suo Signore» (Gv 15,15). Nel secondo rapporto, invece, il discepolo si avvicina al Maestro. Egli è chiamato a partecipare alla vita del Maestro. È proprio del discepolo tendere a diventare somigliante al Maestro. Così, mentre l’azione dello schiavo costruisce la posizione sociale del padrone, l’atto del discepolo, che si muove nella somiglianza verso il Maestro, non costruisce la realtà e la persona del Maestro, ma la realtà e la persona stessa del discepolo. Accogliere la lavanda dei piedi significa assimilarsi a lui e diventare suo discepolo.
Le relazioni padrone/schiavo e Maestro/discepolo, tuttavia, pur rimanendo asimmetriche, nel discepolato cristiano si intersecano. La relazione Maestro/discepolo prende forma solo con l’abbassamento e l’avvicinamento di Gesù alla condizione del discepolo. Solo nel momento in cui egli inverte il rapporto con i suoi diviene reale la compartecipazione con lui e si fa concreta la comunione dei discepoli tra di loro: «anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri» (v. 14).

 b)      La qualità dell’imitazione del gesto di Gesù (v. 15)

 Il secondo elemento che Gesù chiarisce è la qualità dell’imitazione del suo gesto: «Vi ho dato un esempio, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (v. 15). Gli esegeti sono discordi nell’interpretare questo versetto.
Alcuni la interpretano come un esempio di amore e di umiltà che i discepoli sono chiamati a mettere in pratica nei loro rapporti vicendevoli: «Anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri» (v. 14). È l’interpretazione che ritroviamo anche nella nuova traduzione del Nuovo Testamento della Conferenza Episcopale Italiana:

 «Capite quello che ho fatto per voi? [frase interrogativa]… Vi ho dato un esempio infatti perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (vv. 12.15).

 I discepoli di Gesù si qualificano come tali solo se ripetono vicendevolmente il gesto che «il Maestro e il Signore» ha fatto a ciascuno: «Un servo non è più grande del suo padrone» (v. 16). I discepoli di Cristo sono chiamati ad amarsi e aiutarsi reciprocamente, portando gli uni i pesi degli altri, in spirito di carità fraterna. Il servizio vicendevole, espresso in un amore estremo, deve diventare la legge della loro comunità e la norma della loro vita. «Egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli» (1Gv 3,16).
Imitare Gesù non è solo riprodurre il suo gesto di servizio e di umiltà, ma è, piuttosto, fare della propria vita cristiana un “esistere” per gli altri fino al punto di condividere la passione di Cristo.
La lavanda dei piedi, tuttavia, anziché un esempio, può essere considerata come un tipo. Il gesto di Gesù si fa, allora, una sorta di icona per i discepoli. Essi sono esortati a trarre le conseguenze di quello che hanno “visto fare” al Maestro. Coloro che si pongono su questa strada, traducono così il v. 15:

 «Capite ciò che vi ho fatto. [frase imperativa non interrogativa]… È una icona che vi ho dato, perché, in virtù di ciò che ho fatto per voi, anche voi lo facciate» (vv. 12.15).

 Il vocabolo greco che qui traduciamo con «icona» è hypódeigma, termine che ha una connotazione nettamente visiva, di figura, immagine, tipo, modello, e non solo l’accezione di esempio da seguire o meno. Difatti, hypódeigma deriva dal verbo deíknymi che significa far vedere, mostrare e che, ordinariamente, ha, in Giovanni, valore teologico. In questo senso, è possibile dispiegare dinanzi agli occhi una sequenza visiva: a) il Padre mostra al Figlio tutto ciò che egli fa (cf. Gv 5,20); a sua volta, Gesù mostra ai discepoli quello che lui stesso fa; b) come il Figlio fa ciò che vede fare dal Padre, così i discepoli sono invitati a fare quello che hanno visto fare a Gesù.
Lo sguardo ha, nel quarto Vangelo, una funzione considerevole: vedere significa essere sorpresi da una presenza, contemplare in profondità. In questo orizzonte, l’inversione di Gesù non può essere un semplice esempio esteriore da imitare, ma un tipo, una icona appunto, che Gesù stesso dona ai suoi. Un po’ liberamente si potrebbe tradurre: «È una icona che vi ho donato» (v. 15). L’icona donata genera il comportamento futuro dei discepoli: «perché in virtù di, (non “come”) ciò che ho fatto per voi, anche voi lo facciate» (v. 15). Tra il gesto di Gesù e l’amore estremo, che deve caratterizzare ogni aspetto della vita del discepolo, c’è una relazione genetica. Lavandoci i piedi, Gesù prende possesso di noi e ci rende adatti a ripetere il suo gesto gli uni agli altri.
Gesù, dunque, inizia i discepoli a riprodurre il suo fare, che non significa semplicemente «lavare i piedi», ma servizio reciproco, fino in fondo, senza riserve. Un servizio che escluda la volontà di potenza sull’altro e diventi puro abbassamento in virtù di un Dio fattosi “schiavo” per noi. Proprio perché Gesù ha lavato i nostri piedi, noi possiamo lavarli ai fratelli. Così, mentre noi ci laviamo i piedi l’uno all’altro, ripresentiamo il gesto di servizio e di inversione del Maestro, del Signore, a favore del mondo.
[5]

c)      La beatitudine del fare (v. 17)

 «Sapendo queste cose, siete beati se le mettete in pratica» (v. 17). Al termine, Gesù consegna la beatitudine del fare. Il discepolo è chiamato a passare all’azione, altrimenti la sua fedeltà al Maestro è vana. Tuttavia, questo fare è inquadrato nel sapere. È un fare che emerge dalla comprensione profonda di ciò che Gesù ha compiuto per il discepolo. Questi non mette in pratica una legge estrinseca, ma fa, in quanto è abitato dalla rivelazione ricevuta, Cristo medesimo nell’atto di lavare i piedi. Avverte con acutezza Léon-Dufour: «In questo modo [il discepolo], non riproduce forse, secondo la propria misura, l’esperienza del Figlio, la cui fedeltà alla parola del Padre è sempre, in Giovanni, espressione di una conoscenza perfetta?».[6]
Nota Martini: «È da un mistero contemplativo che nasce tutta l’azione cristiana: essa ha la sua origine nella disponibilità radicale di Gesù al servizio nostro, da cui nasce la nostra disponibilità radicale verso gli altri; in quanto siamo amati da Dio, diventiamo capaci di metterci verso gli altri in atteggiamento ilare, semplice e disponibile al servizio».[7] Quanto più mi lascio lavare i piedi da Gesù, tanto più sono reso capace di aderire alla sua inversione, di conoscere il Padre e di servire i fratelli fino al dono supremo dell’amore.

  1. Per un confronto con la vita

 Le due “memorie” del discepolo

Il racconto della lavanda dei piedi si chiude con l’invito di Gesù a guardare, o meglio ad abitare il suo gesto per riesprimerlo: «Capite ciò che vi ho fatto!… È una icona che vi ho dato, perché, in virtù di ciò che ho fatto per voi, anche voi lo facciate» (vv. 12.15). L’atto del Maestro, proprio in quanto gesto rivelatore del mistero di amore della croce, fonda la comunità dei suoi discepoli, è il suo principio costitutivo e la sua regola di vita. In questo senso, la lavanda dei piedi viene consegnata alla memoria esistenziale dei discepoli.
Nella tradizione cristiana, tuttavia, figura anche un’altra memoria: la memoria eucaristica. Dopo le parole sul pane e sul calice ricolmo di vino, Gesù dice espressamente: «Fate questo in memoria di me» (cf. Lc. 22,19; 1Cor 11,24.25). Al cristiano, dunque, sono consegnate due memorie, una «eucaristico-cultuale», l’altra «esistenziale», una che si esprime nel gesto sacramentale, evento di continuo attualizzabile, l’altra che si fa, nella trama della storia, evento irripetibile.[8]
Esiste una sorta di concomitanza tra la memoria eucaristica e la memoria esistenziale. Ambedue trattengono diverse dimensioni che è importante rilevare. Anzitutto, un rapporto esplicito tra il credente e la persona di Gesù, ma in ambiti diversi: uno cultuale, l’altro esistenziale e quotidiano.
Entrambe le consegne, poi, intendono rendere presente, nella vita del discepolo, il Cristo attualmente «assente». Attraverso la memoria eucaristico-cultuale, il cristiano è chiamato a riprodurre le azioni di Gesù espresse durante l’istituzione della cena: «Fate questo in memoria di me». Attraverso la memoria esistenziale, è consegnato ai fratelli e tutta la sua vita non può essere altro che umile servizio ad essi.
Ambedue le «memorie», infine, hanno la funzione di costituire la comunità dei discepoli di Gesù. Per ciò stesso è necessario che rimangano in relazione e anche in tensione reciproca, in quanto l’una non può sussistere senza l’altra.
Lavanda dei piedi – memoria esistenziale – da un lato ed eucaristia – memoria cultuale – dall’altro si richiamano vicendevolmente. La presenza eucaristica del Cristo fonda l’amore fraterno, la lavanda dei piedi è l’azione necessaria che apre l’atto cultuale e lo invera nell’amore vicendevole.
Così, se l’eucaristia fa la Chiesa, la Chiesa, vivendo vicendevolmente la lavanda dei piedi, fa l’eucaristia.
[9] Infatti, se l’eucaristia fa la Chiesa, l’icona della lavanda dei piedi rimane l’atto fondatore e il gesto generatore con il quale la Chiesa medesima si sostiene. Il discepolo, che permane in queste due memorie, è posto nella condizione di annunciare al mondo la presenza del Risorto. Sta scritto: «Come sono belli sui monti, i piedi del messaggero di lieti annunzi che annunzia la pace, messaggero di bene che annunzia la salvezza, che dice a Sion: Regna il tuo Dio. Senti? Le tue sentinelle alzano la voce, insieme gridano di gioia, perché vedono con gli occhi il ritorno del Signore in Sion» (Is 52,7-8; cf. Rm 10,15).

  Un discepolato al “maschile”

Nella lavanda dei piedi, Pietro è costretto dal Maestro e dal Signore ad acconsentire alla sua inversione. È chiamato ad aderire alla sua passione, alla sua umiliazione, alla sua obbedienza al Padre in favore degli uomini. Simone di Giovanni, la roccia, pur non comprendendo, deve scegliere che il Maestro, amato sopra ogni cosa, soffra per lui. Pietro ama Gesù ed è disposto a dare la vita per lui, ma l’amore che il Signore gli chiede non va solo in questa direzione. Gesù domanda al discepolo di accogliere la volontà che il Padre stesso ha su di lui: egli è il Figlio che si spoglia per lavare i piedi ai suoi. Colui che ama veramente, quando è posto dinanzi al dilemma di soffrire lui stesso o lasciare nel dolore l’amato, senza alcuna esitazione, si pone a disposizione per l’altro. Per il discepolo di Gesù questa è solo una parte della verità. Emerge la gloria, nell’amore cristiano, solo quando il discepolo lascia che l’amico e Maestro compia, nello Spirito, la sua obbedienza al Padre proprio per lui, per la sua stessa salvezza di discepolo.
Pietro, quale rappresentante della Chiesa ministeriale, ha grande difficoltà a lasciare che il Cristo compia il suo cammino verso il Padre e verso i suoi nella pura obbedienza al volere del Padre stesso. Per questa sua riluttanza, Cristo lo costringe al suo sì sacrificale aprendolo alla comunione con un Dio che si pone ai suoi piedi e glieli lava.
A questo proposito Martini afferma: «Pietro intuisce che in quell’essere lavato da Cristo si rivela che egli deve tutto a lui. Bisogna che Pietro si lasci penetrare talmente dall’amore del Padre nel Figlio, da essere in tutto dipendente da Dio – come il Figlio dal Padre – e da dover vivere talmente in questa dipendenza di amore e di riconoscenza, alla quale il cuore umano non è pronto ad aprirsi, proprio perché noi tutti desideriamo piuttosto salvarci da noi. È difficile accettare l’amore di Dio, è difficile accettare Gesù che ci vuol servire, come è difficile far accettare ad altri un nostro servizio, se prima non riconosciamo che noi stessi abbiamo ricevuto da Dio».
[10]
La lavanda dei piedi mostra, in tutta la sua specificità, la forma di sequela maschile. A differenza delle donne, che acconsentono che il Cristo percorra la via tracciata dal Padre e si pongono in questa sua sequela, Pietro vuole lui stesso dettare al Maestro la via da percorrere. È Gesù a costringerlo a lasciarsi lavare i piedi. Il discepolo “maschio” è chiamato, allora, a lasciarsi fare dal Maestro, a lasciarsi servire da lui, ad accogliere il “modo” attraverso cui il Padre lo raggiunge in Gesù che solo lo ama in maniera divina e lo rende capace di fare altrettanto ai fratelli.[11]

 Lavanda dei piedi e impegno per la pace

 Il gesto della lavanda dei piedi è un atto di inversione in cui Dio si rivela a servizio dell’uomo. Dio, in Gesù, è l’abbassato per l’uomo. Dio fatto uomo si fa servo dell’uomo; l’amore del Padre viene in soccorso della debolezza della creatura; il Messia si mette all’ultimo posto; l’autorità si fa servizio. Nel gesto di Gesù, allora, si fa luce una concezione di giustizia rintracciabile nelle stesse leggi del Giubileo che troviamo nel libro del Levitico (c. 25): l’esigenza del perdono, la liberazione reciproca, la remissione dei debiti e dei peccati. Nel gesto della lavanda dei piedi si consuma la radicalità del vangelo della pace, della pienezza di vita, della misericordia, della grazia, della mitezza.
Lo stesso Giovanni Paolo II si è fatto portavoce di questa radicalità nel suo messaggio per la Pace dell’anno 2002. Scrive il Papa: «I pilastri della vera pace sono la giustizia e quella particolare forma dell’amore che è il perdono. Ma come parlare, nelle circostanze attuali, di giustizia e insieme di perdono quali fonti e condizioni di pace? La mia risposta è che si può e si deve parlarne nonostante la difficoltà che questo discorso comporta, anche perché si tende a pensare alla giustizia e al perdono in termini alternativi. Ma il perdono si oppone al rancore e alla vendetta, non alla giustizia. (…) Ma poiché la giustizia umana è sempre fragile e imperfetta esposta com’è ai limiti e agli egoismi personali e di gruppo, essa va esercitata e, in certo senso, completata con il perdono che risana le ferite e ristabilisce in profondità i rapporti umani turbati».
[12]
La lavanda dei piedi, vissuta come impegno per la giustizia e offerta di perdono, può contribuire alla costruzione della pace sociale, politica ed economica.

  1. Per la preghiera

Il mio Signore depone la veste, si cinge di un asciugatoio,
versa dell’acqua nel catino e lava i piedi ai suoi discepoli:
anche a noi egli vuole lavare i piedi;
non solo a Pietro, ma anche a ciascun fedele dice:
«Se non ti laverò i piedi, non avrai parte con me».

Vieni, Signore Gesù, deponi la veste che hai indossato per me;
spogliati, per rivestirci della tua misericordia.
Cingiti di un asciugatoio, per cingerci con il tuo dono, che è l’immortalità.
Metti dell’acqua nel catino,
e lavaci non soltanto i piedi, ma anche il capo,
non solo i piedi del nostro corpo, ma anche quelli dell’anima.

Voglio deporre tutta la lordura della nostra fragilità.
Quanto è grande questo mistero!
Quasi fossi un servitore lavi i piedi ai tuoi servi,
e come Dio mandi dal cielo la rugiada.
Ma solo tu ci lavi i piedi, ci inviti anche ad assiderci a tavola con te,
e ci esorti con l’esempio della tua condiscendenza:
«Voi mi chiamate Signore e Maestro, e dite bene, perché lo sono.
Se vi ho lavato i piedi, io che sono il Signore e il Maestro,
anche voi lavatevi i piedi l’un l’altro».

Voglio lavare anch’io i piedi ai miei fratelli,
voglio osservare il comandamento del Signore.
Egli mi comandò di non aver vergogna,
di non disdegnare di compiere quello che lui stesso aveva fatto prima di me;
il mistero dell’umiltà mi è di vantaggio:
mentre detergo gli altri, purifico le mie macchie.
Amen

Ambrogio di Milano


 

[1] X. Léon-Dufour, Lettura dell’Evangelo secondo Giovanni. III (Capitoli 13-17), San Paolo, Cinisello Balsamo 1995, 34.

[2] Tommaso d’Aquino, Commento al Vangelo di Giovanni 13,1755.

[3] Léon-Dufour, Lettura, III, 43.

[4] C’è pure da rivelare la valenza sacramentale della lavanda dei piedi. Diversi esegeti e molti Padri della Chiesa hanno pensato che questa scena contenesse un simbolismo di indole sacramentale, eucaristico secondo alcuni, battesimale e penitenziale secondo altri. Questo punto rimane discusso. Ma una cosa è certa: nei sacramenti si perpetua il gesto di Gesù. Cristo attualizza, per mezzo di essi, l’amore che l’ha spinto a lavare i piedi dei suoi discepoli prima di dare la sua vita per loro. Per mezzo dei sacramenti Gesù è ancora in mezzo a noi nell’atteggiamento del servo.

[5] È questa l’interpretazione di Léon-Dufour, Lettura, III, 47-48.

[6] Ivi, 49.

[7] C.M. Martini, Il Vangelo secondo Giovanni, Borla, Roma, 215.

[8] Su tutto questo cf. Léon-Dufour, Lettura, III, 70-73.

[9] L’affermazione è di H. de Lubac, Meditazione sulla Chiesa, Opera omnia vol. 8, Jaca Book, Milano 1979, 82: «È la Chiesa che fa l’Eucaristia, ma è anche l’Eucaristia che fa la Chiesa».

[10] Martini, Vangelo Gv, 214.

[11] Sul discepolato al maschile e al femminile in Giovanni si veda Brunini, Maestro, dove abiti?

[12] Giovanni Paolo II, Messaggio per la XXXV giornata mondiale della pace. Non c’è pace senza giustizia non c’è giustizia senza perdono 2-3.

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PREGHIERA

“Signore tu sai tutto, tu sai che ti amo!”
 

E’ il mio grido che viene dal cuore

quasi come un incendio interiore.

Le memorie, le attese, gli affetti,

nostalgie di persone e di cose,

le paure di alcuni momenti

il dolore per miei tradimenti,

già convergono in un unico Amore:

ci sei Tu, mio dolce Signore!

Sì, tu sai tutto, tu sai che ti amo!

Quante grazie!

Nel servizio in mezzo ai fratelli:

mi ritrovo strumento di Te

del tuo amore stupendo e profondo,

un Amore che cambia di dentro,

che stupisce, rapisce, commuove,

che mi spinge ad amare di più.

Si, tu sai tutto, tu sai che ti amo!

Tuo Sacerdote, Signore Gesù!

Ed è come specchiandomi in Te

che io scorgo il mio volto nel Tuo

e il tuo Volto nel mio!

Tu mi hai chiesto di vivere in me!

Guardo, poi, le mie povere mani:

vi intravvedo quei segni gloriosi d’amore,

le piaghe.

Da lì vedo sgorgare il tuo Sangue,

che perdona, che lava e consola,

che, potente, allontana ogni male,

dove anch’io vi ritrovo conforto

quando appoggio il mio cuore sul Tuo

 e respiro il Tuo Spirito in me.

Signore tu sai tutto, tu sai che ti amo!

Anche verso orizzonti lontani

che, da solo, non riesco a vedere,

sono pronto a seguirti, Signore!

Per il tempo che tu mi darai

certo sempre che la tua fedeltà

rende bella la mia povertà.

La mia vita ti offro anche adesso,

la depongo con te sull’altare.

E capisco che ogni “successo”

non ha senso se non nell’amare:

nel donarmi in Te,

nel guardare in Te,

nel sentire in Te,

nel morire con Te

per vedere poi tutto fiorire.

Ed ancora stupito mi accorgo

che in passato, presente e futuro,

al di là dell’età,

Tu mi hai reso “pastore”.

Perciò grido più forte l’amore:

Signore, tu sai tutto, tu sai che ti amo!
 

P.B.- P.O.R.A.